Per la prima volta da tre anni, tra pochi giorni la Pasqua sarà celebrata senza restrizioni sanitarie in Vaticano.
L’immagine di un papa solo, nella piazza deserta, all’ombra di un cielo colmo di nuvole e pioggia rimane una delle immagini più impressionanti della pandemia. In quel giorno di marzo nel suo vuoto, piazza San Pietro aveva abbracciato un’universalità nuova, planetaria.
Il ritorno pieno della Pasqua
Nella scenografia della sua preghiera Urbi et Orbi Francesco aveva scovato un modo per comunicare con l’umanità chiusa, confinata, indipendentemente dalla sua fede o dal suo ateismo. L’assenza diventava una presenza più acuta. “Nessuno si salva da solo” aveva detto.
La decisione di limitare la partecipazione dei fedeli alle celebrazioni pasquali, trasmettendole via streaming, rappresenta un momento che forse è scorso troppo rapidamente nell’attualità vertigiosa che attraversa i nostri schermi, ma che resterà probabilmente a lungo per definire una delle tendenze di fondo del nostro tempo. La Chiesa cattolica seguì, in parte anzi accompagnò le misure di distanziamento, perché capì le ragioni sanitarie e politiche che presiedevano questa scelta, adottando a volte in modo anche maldestro le possibilità permesse dal digitale per limitare la diffusione del virus.
Come si arrivò a questa decisione? Paradossalmente – almeno se ci arrestiamo al racconto delle divisioni vaticane – fu proprio il cardinale Robert Sarah, nominato da Benedetto XVI prefetto della Congregazione per il Culto Divino e la Disciplina dei Sacramenti a firmare il decreto “In tempo di Covid-19” (Congregatio de Cultu Divino et Disciplina Sacramentorum, Prot. n. 153/20) che offriva le indicazioni generali ai Vescovi.
Il beve testo del decreto nella sua asciuttezza ricordava che la Pasqua in quanto “cuore dell’anno liturgico non è una festa come le altre e non può essere trasferita.” Esprimeva però a tre riprese una formula decisiva. Le celebrazioni sono autorizzate “in misura della reale possibilità stabilita da chi di dovere”. Insomma qualora non fosse stato permesso, il decreto incitava i parroci a celebrare da soli “i misteri liturgici avvisando i fedeli dell’ora d’inizio in modo che possano unirsi in preghiera nelle proprie abitazioni”, suggerendo di aiutarsi con i “mezzi di comunicazione telematica in diretta, non registrata”.
La curva stretta della pandemia ha visto passare una Chiesa cattolica unita su un fronte che potremmo definire responsabile. Tra sanità e santità, in questo passaggio complicato si può misurare il rapporto della Chiesa con la nostra modernità estrema. Una forza che frena l’accelerazione, che riduce gli attriti e porta stabilità nelle convulsioni del contemporaneo.
Non sono certo mancate opposizioni, tra tutte quella del filosofo italiano Giorgio Agamben che si scandalizzava di questa scelta: “La Chiesa ha rinnegato puramente e semplicemente i suoi principi, dimenticando che il santo di cui l’attuale pontefice ha preso il nome abbracciava i lebbrosi, che una delle opere della misericordia era visitare gli ammalati, che i sacramenti si possono amministrare solo in presenza.”
Dobbiamo però notare che all’interno della Chiesa poche figure di rilievo hanno preso le distanze in modo plateale da queste misure inedite, anche sconvolgenti dal punto di vista liturgico. Un’eccezione è forse rappresentata dal caso dell’arcivescovo Carlo Vigano, ex nunzio apostolico negli Stati Uniti, entrato in una spirale complottista che lo ha condotto a prendere delle posizioni sempre più radicali, sviluppando una lettura apocalittica della pandemia e della gestione politica e ecclesiastica attraverso la nozione di deep state e deep church. Finirà per essere sostenuto dall’allora presidente degli Stati Uniti Donald Trump a cui aveva scritto una lettera dai toni singolari in cui evocava la lotta del Presidente americano contro “i figli delle tenebre”.
La posizione della Chiesa ortodossa
Troviamo qui una differenza radicale con la posizione assunta da una parte consistente della Chiesa ortodossa che ha spesso evocato esplicitamente la dimensione escatologica della crisi: la pandemia era letta come un segno e come un appello a essere pronti alla fine dei tempi. Nell’insieme della sua gerarchia ha peraltro adottato un approccio molto meno mansueto rispetto alle indicazioni sanitarie, soprattuto in relazione alla distanza e ai gesti barriera per la comunione. Va ricordato che gli ortodossi fanno la comunione con il pane e il vino benedetti, mescolati nel calice santo e somministrati dal sacerdote con un cucchiaio.
Per evitare che i doni sacri possano cadere a terra, un velo rosso è tenuto sotto il calice e pulisce la bocca dei fedeli che hanno ricevuto la comunione. I fedeli baciano poi il calice simbolo della loro appartenenza al sacerdozio di Cristo. Alla fine della liturgia, i sacerdoti o i diaconi consumano i resti dei doni sacri e lavano il calice con acqua calda.
Il rischio di contagio di questi gesti sembra evidente, ma un argomento teologico era opposto all’argomento epidemiologico. Secondo l’arciprete Maxim Kozlov, presidente del Comitato per l’educazione del Santo Sinodo della Chiesa ortodossa russa infatti: “Come cristiani ortodossi, siamo convinti che sia impossibile essere contagiati attraverso la comunione dei santi doni, attraverso il Corpo e il Sangue di Cristo.”
La dialettica tra fede e mondo
Osserviamo qui una tensione già notata dal cardinale Carlo Maria Martini alla fine dell’Unione sovietica, che aveva scoperto con inquietudine l’impreparazione di una Chiesa “uscita dalle catacombe”, ma “congelata e partanto impreparata al confronto con il pluralismo e la libertà democratica”.
In questo senso anche i doni della Chiesa ortodossa, definiti da Joseph Ratzinger come un “autentico ascetismo cristiano”, rischiano di essere un ostacolo all’espressione di quella “fede limpida e profonda, capace di esprimesi e di impegnarsi anche nelle più delicate frontiere e nei più intricati crocevia della storia” di cui parlava Martini.
Dobbiamo purtroppo notare che questa discrepanza esploderà con l’invasione dell’Ucraina. La crasi tra ortodossia moscovita e apparato putiniano sarà portata all’estremo dal Patriarca Kirill quando il 6 marzo 2022, durante la celebrazione della Divina Liturgia nella Cattedrale di Cristo Salvatore a Mosca la domenica di San Giovanni, domenica dell’esilio adamitico (“domenica del perdono”), ha pronunciato un infuocato sermone per giustificare le cause della guerra di Putin in Ucraina:
“Oggi c’è una prova di fedeltà al potere [occidentale], una sorta di lasciapassare per questo mondo ‘felice’, un mondo di consumi eccessivi, un mondo di apparente ‘libertà’. Sapete qual è questo test? Il test è molto semplice e allo stesso tempo terrificante: è una parata del gay pride”.
La lezione di Carlo Maria Martini
È in questo senso che, come lo ha notato il vaticanista Jean-Benoit Poulle, una parola biblica paradossalmente dedicata al “perdono” serve come giustificazione per la guerra nella tradizione bizantina del cesaropapismo:
“E così oggi, in questa domenica del perdono, io, da una parte, come vostro pastore, invito tutti a perdonare i peccati e i debiti, anche dove è molto difficile farlo, dove le persone sono in lotta tra loro. Ma il perdono senza la giustizia è una resa e una debolezza. Il perdono deve quindi essere accompagnato dall’indispensabile diritto di stare dalla parte della luce, dalla parte della verità di Dio, dalla parte dei comandamenti divini, dalla parte di ciò che ci rivela la luce di Cristo, la sua Parola, il suo Vangelo, le sue più grandi alleanze date al genere umano”.
Nei sommovimenti degli anni Venti, riemerge una differenza radicale e una sfida per la Chiesa universale, non solo o non tanto europea, di Francesco. Di fronte al ritorno della teologia politica, confrontati a una “guerra santa” condotta da una potenza nucleare, possiamo forse ripartire da un consiglio di Carlo Maria Martini: “le Chiese occidentali dovranno mostrare che la fede può essere vissuta seriamente e significativamente anche in un mondo tecnicizzato e complesso come il nostro”.
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