Roma, 5 mar – La condizione del servo nell’Occidente medievale. Aspetti giuridici e sociali (IV-XV sec.), Francesco D’Amato Editore, Salerno 2023, pp. 140, Euro 12,00, è un saggio di Tommaso Indelli che intende offrire un quadro generale del fenomeno servile dall’Età tardoantica agli albori della Modernità (IV-XV secolo), sotto il particolare profilo giuridico e sociale. Il taglio dell’opera è, pertanto, molto tecnico, non avendo come obiettivo una vera e propria “storia della servitù” – su cui si è molto scritto – ma indagare solo alcuni specifici aspetti del fenomeno servile.

servo, condizione

Una delle immagini più evocative e, senza dubbio, più efficaci dei secoli medievali è, senza dubbio, quella del servus glebae, letteralmente il “servo della terra”. Tuttavia, anche su quest’argomento – come su altri attinenti ai cosiddetti secoli oscuri – fioccano pregiudizi e nozioni sbagliate, in gran parte frutto dello studio approssimativo dei manuali scolastici, spesso contenenti notizie fuorvianti. La ricostruzione delle caratteristiche del servaggio medievale o – come più spesso si dice – dell’istituto della servitù della gleba è estremamente complessa come è stato dimostrato dal dibattito storiografico in atto da tempo. Alla definizione della condizione di servo della gleba contribuirono apporti culturali, sociali e giuridici di due civiltà almeno all’inizio profondamente diverse: quella romana e quella germanico-barbarica (T. Indelli, La condizione del servo nell’Occidente medievale. Aspetti giuridici e sociali (IV-XV sec.), Salerno 2023, pp. 12 ss.). Il servaggio, inoltre, dal punto di vista giuridico e socio-economico non fu mai un istituto monolitico, ma assunse aspetti parzialmente diversi a seconda delle aree geografiche considerate. Nel corso dei circa dieci secoli del Medioevo europeo, andò incontro ad una lenta, ma strutturale evoluzione e, alla fine del XVIII secolo, nel clima culturale e politico di imperante Illuminismo, fu solennemente abolito, durante la Rivoluzione francese, dall’Assemblea Nazionale Costituente (1789-1791), con apposita legge abrogativa del feudalesimo, la notte del 4-5 agosto del 1789. L’espansione militare napoleonica e le conquiste giuridiche della Rivoluzione francese, portarono alla scomparsa del servaggio in tutta l’Europa, ma non in Russia, dove fu abolito solo nel 1861. Negli imperi coloniali il servaggio, sebbene in forme alquanto diverse da quelle medievali – ma adeguate a realtà etniche e geografiche totalmente diverse da quelle del continente europeo – sopravvisse finché, nel corso del XIX secolo, fu abolito dai singoli stati insieme alla tratta degli schiavi (quest’ultima nel 1815). Negli Stati Uniti, la servitù di piantagione fu abolita dal XIII emendamento federale, votato dal Congresso nel 1865, al termine della guerra civile, mentre in Brasile fu ufficialmente abolita solo nel 1888 (A. De Bernardi – S. Guarracino, La conoscenza storica, Settecento e Ottocento, Milano 2000, pp. 440 ss.).

Il colonato tardoantico (IV-V secolo d. C.)

Molti storici hanno ravvisato nel colonato tardoimperiale l’inizio di un lungo processo che, secoli dopo, sarebbe sfociato nel servaggio medievale. La legislazione degli imperatori della dinastia costantiniana (IV secolo d. C.), infatti, impose ai coloni – coloni, adscripticii – affittuari di fondi rustici privati o demaniali, l’obbligo di pagare un canone in danaro o in natura e di soggiornare sulla terra che lavoravano, col divieto di abbandonarla senza permesso delle pubbliche autorità o del padrone, sotto minaccia di gravi sanzioni. Col tempo, questa legislazione creò una situazione a dir poco paradossale, nell’ambito della società imperiale, perché istituì un ordine infimo composto da uomini formalmente cittadini e liberi e che, pur distinti dai veri e propri schiavi, subirono progressivamente limitazioni non irrilevanti alla loro libertà diventando, per legge, “schiavi di fatto” (G. Giliberti, Servi della terra. Ricerche per una storia del colonato, Torino 1999, pp. 21 ss.). Nella struttura sociale tardoimperiale, accanto ai cittadini romani privilegiati – honestiores – al resto del popolo – humiliores – e agli schiavi veri e propri – servi – si impose una categoria di individui ibrida, né totalmente schiavi, né totalmente liberi. Il legame dei coloni tardo antichi con la terra, imposto dalla legislazione imperiale in un periodo di crisi economica e di enorme pressione fiscale, di guerre civili e di “invasioni barbariche”, era finalizzato alla tutela dell’interesse dei proprietari terrieri a veder coltivati stabilmente i latifondi e, indirettamente, della Res publica alla riscossione delle imposte – grazie ai censi degli affittuari – all’adempimento del servizio militare – che gravava sui coloni – all’approvvigionamento di risorse alimentari per l’esercito e la burocrazia. Ai coloni era anche interdetto l’ingresso nel clero, perché esente dal pagamento delle tasse. Ben presto, le limitazioni imposte ai coloni finirono per equipararli ai veri e propri schiavi, cioè agli individui formalmente sprovvisti di libertà e di cittadinanza e posti, quindi, alla mercé del padrone. I proprietari terrieri finirono per avere voce in capitolo anche nella vita privata degli affittuari, cui furono imposti divieti in campo matrimoniale e familiare, nell’acquisto e nell’alienazione di beni, nella successione testamentaria e ab intestato, tanto che si disse che i coloni “..vivevano da liberi, ma morivano da schiavi…” (A. Guarino, Storia del diritto romano, Napoli 1998, pp. 99 ss.).

I secoli altomedievali (V-X secolo)

Alcuni aspetti del colonato tardoimperiale confluirono nella servitù della gleba dell’Alto Medioevo (V-X secolo), un istituto sorto in un contesto storico differente, dopo lo sfacelo dell’Impero. Nella società altomedievale, caratterizzata da una profonda debolezza dei poteri pubblici e da uno sfaldamento delle strutture amministrative del mondo romano, dall’esaltazione della forza, dal culto del valore guerriero e dalla fedeltà assoluta nei rapporti interpersonali – patrimonio culturale delle giovani ed emergenti tribù germaniche – era logico che si affermassero forme nuove di legami non solo etici, ma anche giuridici, fra gli individui. Oltre ai ben noti rapporti vassallatico-beneficiari, uno di questi legami fu proprio la servitus glebae. La gleba, nel latino medievale, indicava letteralmente la zolla di terra e, quindi, la condizione dei servi rustici, vincolati alla terra che coltivavano, da cui non potevano allontanarsi e con cui potevano essere venduti. La definizione di servo della gleba non è, contrariamente a quanto si pensa, un’invenzione, un elaborato della medievistica contemporanea o degli storici ed eruditi di età moderna. La si ritrova, infatti, già nel codice Teodosiano del V sec. d. C., in cui si fa espresso riferimento, in molte disposizioni normative, alludendo ai coloni dei fondi rustici, alla categoria sociale dei servi terrae. La definizione di servi glebae si deve, ad una glossa esplicativa di Irnerio, giurista bolognese del XII secolo, apposta ad alcune disposizioni, relative all’istituto della servitus terrae e contenute nel titolo V – De statu hominum del libro primo del Codice dell’imperatore Giustiniano I (VI sec. d. C.). Tuttavia, i servi medievali erano parzialmente diversi dagli schiavi dell’Antichità e anche dai coloni tardoimperiali. Infatti, il legame con la terra di questi ultimi era un legame imposto dalla legge dello stato romano, cioè da un potere sovraordinato, per la tutela di interessi di rilevanza pubblica – tasse, stabilità sociale, approvvigionamenti – mentre nel caso dei servi medievali no. Ciò impedisce di considerare il servaggio della gleba una sorta di derivazione diretta del colonato romano, nonostante molti aspetti in comune (M. Bloch, La servitù nella società medievale, Firenze 1993, pp. 43 ss.). I due istituti, infatti, sorsero in condizioni giuridiche, sociali, economiche e politiche molto differenti. Il colonato si affermò in un contesto di crisi, ma pur sempre dominato da un potere politico ed amministrativo forte – o che, almeno, cercava di essere tale – mentre il servaggio fiorì in una società caratterizzata dall’assenza di un potere pubblico efficace. La gran parte dei servi della gleba, quindi, era tale perché ridotta in quella condizione dalla forza dei signori del luogo, cioè dei proprietari fondiari spesso definiti, genericamente e in maniera non sempre corretta, feudatari. Inoltre – occorre ribadirlo – i coloni tardoimperiali restavano pur sempre liberi e cittadini, nonostante tutte le limitazioni alla loro libertà, mentre i servi della gleba non erano né cittadini, né liberi (W. Rosener, I contadini nel Medioevo, Bari 1989, pp. 55 ss.). Eppure, rispetto agli schiavi dell’Antichità e nonostante la durezza della loro condizione, ai servi della gleba era consentito fare molte cose come sposarsi e avere una famiglia, essere proprietari di beni mobili e immobili, compiere validi atti giuridici a titolo oneroso o gratuito, fare testamento e, inoltre, non potevano essere impunemente uccisi e battuti dal padrone, che rischiava un’incriminazione per omicidio (M. Bloch, I caratteri originali della storia rurale francese, Torino 1973, pp. 46 ss.). Il servaggio costituiva – un po’ come il colonato tardoimperiale – una sorta di paradosso giuridico, perché i servi usufruivano di alcuni diritti degli uomini liberi, pur continuando ad essere servi. Un paradosso certamente spiegabile con la necessità di adattare un istituto – la servitù classica – ad una differente realtà religiosa, culturale, economica e sociale che presentava problemi diversi rispetto all’Antichità, e si nutriva anche dell’apporto di tradizioni giuridiche differenti da quella latina, soprattutto germaniche. Il Cristianesimo, inoltre, proibiva espressamente la schiavitù dei battezzati e i trattamenti inumani e degradanti verso di essi e, tuttavia, la Chiesa non si oppose mai espressamente all’istituto servile, anzi, fu essa stessa proprietaria di molti servi. Soprattutto nelle città, però, continuarono ad essere presenti veri e propri schiavi, cioè individui sprovvisti totalmente della libertà personale e trattati alla stregua di oggetti e non soggetti giuridici come gli schiavi dell’Antichità. In genere, si trattava di donne, ma non solo, adibite a mansioni domestiche in famiglie patrizie, appartenenti ad etnie extraeuropee o, comunque, non cristianizzate. Formalmente la conversione e, quindi, il battesimo di uno schiavo, ne imponeva l’immediato affrancamento. Occorre tuttavia – per evitare fraintendimenti e capire meglio quanto fosse complessa la condizione dei servi medievali – fare una breve precisazione lessicale. Durante il Medioevo, il termine latino servus fu sicuramente uno dei più usati per indicare le persone sprovviste di libertà e vincolate alla terra (G. Duby, Le origini dell’economia europea. Guerrieri e contadini nel Medioevo, Bari 1975, pp. 35 ss.). A partire dal IX secolo, cominciò ad essere abbondantemente usata anche la denominazione di sclavus – schiavo – con riferimento alla provenienza etnica, slava (slavus), di gran parte dei servi e dei veri e propri schiavi che lavoravano nelle dimore patrizie. Costituisce pertanto un errore comune – anche se ormai diffusissimo – indicare come schiavitù e schiavo, con un termine sconosciuto per i Romani, la servitù ed il servo dell’Antichità e non, invece, come sarebbe corretto, con i termini servitù e servo, entrambi di origine latina. L’uso del termine schiavo, infatti, ha assunto una valenza decisamente peggiorativa rispetto a quello di servo, quasi a voler intendere – almeno da un punto di vista terminologico – che la condizione umana e giuridica del servo medievale fosse, per certi versi, migliore di quella del servo dell’Antichità. È preferibile allora utilizzare, in maniera più appropriata, il termine servaggio per indicare la condizione del servo nel Medioevo, almeno di quello rustico, oppure utilizzare, tranquillamente, il termine latino servus, specificando il contesto ambientale e temporale cui ci si riferisce. Tuttavia, a partire dal IX secolo, tanto nel linguaggio comune che in quello colto e giuridico, era ormai radicata la distinzione tra servo e schiavo. Il termine schiavo alludeva ad una condizione giuridica e sociale più infima e dura di quella del servo e molto simile a quella dell’Antichità ma, nonostante la similitudine con gli schiavi dell’Impero romano, gli schiavi medievali erano una realtà non antiquaria, ma realissima. Si trattava di persone di condizione servile di cultura slava o musulmana o, comunque, di fede non cattolica, mapagana” o islamica, oppure di cristiani eretici e scismatici. A costoro, era riservato un trattamento più duro e meno umano di quello dei normali servi (R. Grand-R. Delatouche, Storia agraria del Medioevo, Milano 1968, pp. 23 ss.).

Il basso Medioevo (XI-XV secolo)

Nel corso dei secoli altomedievali, nelle campagne europee i principali obblighi dei servi della gleba consistevano nel lavorare la terra del dominus, pagando eventuali censi in natura o in denaro, se affittuari di un podere, e di corrispondergli alcune tasse come la taglia – sorta di testatico – il formariage – in caso di matrimonio con sudditi di un altro signore – e la manomorta, in caso di successione ereditaria (in tal caso a pagare erano, generalmente, gli eredi del defunto, a fine di acquistare l’eredità). I servi, inoltre, erano gravati dalle corvées, prestazioni di lavoro gratuite sulle terre del signore e dall’obbligo di corrispondere eventuali donativi in occasione di particolari occasioni o festività. Inoltre, i servi avevano anche l’obbligo di servirsi dei mulini, forni e frantoi del signore – bannalità – corrispondendogli una tassa per l’uso, generalmente pagata in natura. Tra i poteri del signore non era annoverato il cosiddetto ius primae noctis, ossia il diritto di giacere, la prima notte di nozze, con la sposa del proprio servo, che è indubbiamente un’invenzione posteriore (R. Fossier, L’infanzia dell’Europa. Economia e società dal X al XII secolo, Bologna 1980, pp. 22 ss.). La condizione servile si acquistava, generalmente, per nascita da madre o da entrambi i genitori servi, oppure in caso di insolvenza debitoria, ma poteva essere abolita in seguito ad affrancamento, disposto dal padrone nei modi consentiti dalla consuetudine o dalla legge. Nulla impediva, secondo il diritto dell’epoca, che un individuo, sprovvisto di adeguate risorse, si concedesse volontariamente in servitù ad un altro, per l’intera vita o per un periodo di tempo più o meno lungo. La condizione del servaggio iniziò a mutare col passaggio dall’Alto al Basso Medioevo (XI-XV secolo), quando lo sviluppo della civiltà urbana e delle monarchie nazionali, l’incremento demografico e produttivo, l’affinamento di certi costumi e tradizioni “barbari”, condussero alla progressiva riduzione del numero dei servi anche grazie agli affrancamenti collettivi, disposti dai padroni o dal potere pubblico. In quel periodo, infatti, al fine di procacciarsi manodopera a basso costo, ma libera ed esente da oneri di mantenimento a carico del padrone, le città e gli stessi proprietari fondiari iniziarono ad emettere carte di franchigia, con cui concessero la libertà a moltissimi servi, al fine di incoraggiare lo stanziamento di uomini liberi in città o su terre vergini da disboscare e coltivare (P. Cammarosano, Le campagne nell’età comunale (metà sec. XI- metà sec. XIV), Torino 1974, pp. 35 ss.). Spesso i provvedimenti d’affrancamento erano promulgati dai sovrani o dalle città al fine di indebolire i feudatari, i signori locali, sottraendo loro uomini che, una volta affrancati, avrebbero senza dubbio abbandonato il feudo del padrone e si sarebbero trasferiti, con relative famiglie al seguito, nelle città o su terre demaniali. Tra questi provvedimenti sono rimasti giustamente famosi il Liber Paradisus, – promulgato dal comune di Bologna nel 1287 – e un analogo provvedimento emanato, nel 1289, dal comune di Firenze, al fine di indebolire politicamente ed economicamente alcune famiglie signorili stanziate nel contado e ostinate a non piegarsi all’autorità comunale. Il trasferimento in città degli ex-servi, era generalmente ricompensato anche con l’acquisto della cittadinanza o l’iscrizione in una corporazione (G. Luzzatto, Dai servi della gleba agli albori del capitalismo, Bari 1966, pp. 54 ss.). Alla vigilia della Rivoluzione francese che diede il colpo di spugna definitivo al servaggio medievale e agli istituti feudali, la presenza dei servi nelle campagne dell’Europa occidentale si era già ridotta in misura non superiore al 2% della popolazione rurale che, all’epoca, era la stragrande maggioranza. Tuttavia, la rivoluzione industriale e lo sviluppo incipiente del sistema capitalistico e manifatturiero avrebbero, di lì a poco, introdotto altre e più severe forme di asservimento sociale ed economico dei lavoratori.

Tommaso Indelli

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