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La nuova corsa all’Africa: le diverse strategie di Usa, Cina e Russia – Anna Bono

Negli ultimi sei mesi Stati Uniti, Cina e Russia hanno intensificato i viaggi diplomatici nel continente africano. I loro rappresentanti hanno avuto colloqui con capi di Stato e ministri di diversi Paesi sub-sahariani, quasi incrociandosi a volte, come è successo a gennaio in Sudafrica e in Etiopia, dove sono arrivati e partiti a poche ore di distanza gli uni dagli altri.

Persino il minuscolo Eswatini (fino al 2018, Swaziland), poco più di un milione di abitanti, è stato incluso in uno dei viaggi del ministro degli esteri russo Sergei Lavrov, a fine gennaio.

L’attivismo dei Paesi emergenti

Si dice che sia in atto una nuova “corsa all’Africa” alla quale partecipano, oltre alle grandi potenze, diversi Paesi emergenti. Dal 2010 a oggi nel continente, specie nell’area sub-sahariana, sono state aperte più di 320 ambasciate di Stati asiatici e sudamericani.

Il solo Brasile ne ha aperte 29, la Turchia 26 (adesso ne ha 43) e in vent’anni ha portato i rapporti commerciali bilaterali con Paesi africani da cinque a 25 miliardi di dollari. Nel 2018 l’India è diventato il terzo maggiore partner commerciale del continente dopo Cina e Stati Uniti, prendendo il posto della Francia.

Sfere di influenza e voti all’Onu

L’espressione “corsa all’Africa” è stata usata per la prima volta a proposito della colonizzazione del continente da parte di sette Stati europei, tra i quali l’Italia, a partire dalla seconda metà del XIX secolo. Gli obiettivi allora erano l’apertura di nuovi mercati, lo sfruttamento di risorse minerarie e agricole, la creazione di basi militari e navali strategiche.

Sono gli stessi obiettivi della attuale “corsa all’Africa”, ai quali oggi si aggiunge quello di attirare, come durante la Guerra Fredda, quanti più Stati africani ora indipendenti e sovrani nelle rispettive aree di influenza e, questione sempre più rilevante, ottenerne il sostegno e il voto alle Nazioni Unite: all’Assemblea generale, al Consiglio di sicurezza, al Consiglio dei diritti umani, nelle commissioni e nelle agenzie specializzate.

Nel 2022 l’Assemblea generale ha votato delle risoluzioni di condanna dell’invasione dell’Ucraina da parte della Russia. In più di una occasione tra astenuti, non partecipanti al voto e contrari, in tutto quasi metà dei 54 Stati africani non hanno votato a favore: una prova del peso che il continente può esercitare in sede di Palazzo di Vetro.

La sfida Usa-Cina a suon di investimenti

Stati Uniti e Cina si contendono i governi africani puntando su finanziamenti, investimenti e prestiti. La Cina si orienta soprattutto sulla realizzazione di infrastrutture – 13.000 chilometri di linee ferroviarie,100.000 di superstrade, mille ponti, 100 porti… negli ultimi 20 anni – tra cui la Grande diga della Rinascita etiope (Gerd) sul Nilo Azzurro costata cinque miliardi di dollari.

Gli Stati Uniti sono i maggiori finanziatori e donors di progetti nell’ambito della cooperazione internazionale allo sviluppo e umanitaria, ordinaria e d’emergenza, bilaterale e multilaterale, seguiti in questo dall’Unione europea e dai suoi Paesi membri.

La Russia invece si è fatta strada nel continente prevalentemente offrendo aiuti militari. Fornisce istruttori militari e armamenti a una ventina di Paesi. Metà delle armi importate in Africa nel 2022 sono state acquistate in Russia. In alcuni casi la voce “istruttori” va letta come “mercenari”, quelli del gruppo Wagner.

Ad esempio, nella Repubblica Centrafricana, il cui governo regge alla pressione dei gruppi armati che da anni controllano gran parte del Paese grazie a centinaia di mercenari che provvedono alla sicurezza della capitale Bangui.

La non ingerenza

Cina, Russia e altri Stati si vantano di non aver colonizzato il continente e dalla loro parte hanno il fatto di assicurare ai governi africani di non interferire nei loro affari interni e di non porre condizioni alla erogazione di prestiti e finanziamenti, “come invece pretendono di fare gli ex colonizzatori”.

Punto di forza degli Stati Uniti, e degli altri Paesi occidentali, è l’infinita disponibilità a rinegoziare e cancellare i debiti e a concedere sempre nuovi prestiti e doni, e inoltre l’enorme quantità di aiuti umanitari, sia di emergenza che permanenti sotto forma di servizi di base, essenziali per i governi perché mitigano i disagi e quindi il risentimento popolare per l’estrema carenza di servizi pubblici.

Pozzo senza fondo

Da parte loro, i leader africani irresponsabili ma tutt’altro che sprovveduti, se mai ve ne furono, sanno che cosa vogliono e come ottenerlo. Denaro, sotto forma di prestiti, finanziamenti, doni: è questa in sostanza la loro inesauribile richiesta e tutti – Stati Uniti, Cina, Russia e gli altri Paesi che intrattengono rapporti con l’Africa tra cui la stessa Italia – fanno a gara per accontentarli, a suon di miliardi di dollari.

Incuranti del fatto che per malgoverno e corruzione tanta parte vada sprecata, e per questo il continente sia sommerso dai debiti, continuano a riversare miliardi di dollari su Paesi già insostenibilmente indebitati, a rischio default o che, come Ghana, Mali e Zambia, lo hanno fatto di recente.

La zavorra del debito

Dal 2020, anno in cui è stato creato dal G20 e dal Club di Parigi, 39 Stati africani hanno aderito al Programma di riduzione del debito estero destinato ad aiutare Paesi a basso reddito gravati da un debito ritenuto eccessivo.

Questo programma si aggiunge alla HIPC Initiative (Iniziativa per Paesi poveri fortemente indebitati), attivata dal Fondo monetario internazionale e dalla Banca Mondiale nel 1996 e rafforzata nel 2005 e nel 2007 con ulteriori contributi finanziari per consentire la completa cancellazione di debiti contratti con le due banche Onu e con la Banca africana di sviluppo (30 dei 33 stati che finora ne hanno usufruito sono africani e altri tre – Somalia, Sudan ed Eritrea – sono in attesa di sapere se saranno ammessi).

Tuttavia, i governi africani continuano ad accumulare debiti. Secondo l’Fmi, 23 Stati sub-sahariani sono troppo fortemente indebitati o rischiano di diventarlo a breve. Solo l’intervento di istituti finanziari multilaterali e di sviluppo ha finora evitato ulteriori default.

Nigeria e Kenya a rischio default

Persino la Nigeria, prima economia e primo produttore di petrolio del continente, ha un debito che nel 2023 si prevede possa raggiungere i 172 miliardi di dollari e, per evitare il collasso economico, è dovuta ricorrere negli ultimi anni a ripetuti prestiti da parte di Banca Mondiale e Fmi, il più recente dei quali pari a cinque miliardi di dollari.

Tra i Paesi a maggior rischio di default c’è il Kenya, che il presidente Sergio Mattarella ha visitato a metà marzo per rinnovare un impegno di cooperazione che ha definito “esemplare”, da replicare ovunque. Ha tessuto le lodi del Kenya e del suo governo portandolo a “esempio virtuoso di democrazia e modello di crescita virtuosa e sostenibile”.

Invece, il Paese affonda nei debiti tanto che nel 2021, quando l’Fmi ha annunciato di aver approvato un nuovo prestito per 2,4 miliardi di dollari, alcuni cittadini hanno lanciato una raccolta di firme on line per chiedere all’agenzia Onu di non concedere altri fondi al governo. I promotori dell’iniziativa hanno pubblicato una fotografia dell’allora presidente Uhuru Kenyatta con una didascalia che diceva:

“Avvertiamo il mondo intero che questa persona non è autorizzata ad agire in nome e per conto dei cittadini del Kenya e che la nazione e le sue generazioni future non risponderanno di eventuali sanzioni a causa di prestiti da lui chiesti e a lui concessi”.

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