Vino è cultura, non c’è alcun dubbio. Basta attraversare l’Italia dalle Alpi alla Sicilia per averne mille conferme. Ma se c’è un posto nel nostro paese dove la tecnologia umana applicata al vino rappresenta davvero la quintessenza di un fenomeno culturale, storico e antropologico, beh, quel posto è la Valpolicella. È proprio qui che trova la sua consacrazione l’appassimento, ovvero quel processo di parziale disidratazione naturale delle uve per ottenere nel vino una maggiore concentrazione di colori, profumi e sapori. Le uve parzialmente appassite hanno anche una più alta concentrazione di zuccheri.
Una tradizione che, secondo i documenti, risale perfino ai tempi dei Romani che chiamavano “retico” il vino proveniente dall’essiccamento degli acini, caratteristico di questa parte d’Italia. Questo sistema, in Italia, è per lo più applicato per ottenere vini dolci (e, ovviamente, molto concentrati). In Veneto, però, l’appassimento è normalmente utilizzato anche per la produzione di vini secchi, con la conseguenza di ottenere prodotti più corposi, complessi e alcolici. L’espressione suprema del genere è certamente l’Amarone, mentre il Recioto è il vino dolce della tradizione veronese.
La tecnica ha un discreto grado di complessità. Prima di tutto, le uve adatte per l’appassimento devono essere perfettamente sane, con grappoli non troppo compatti: ciò richiede un attento lavoro dell’uomo in vigna. Dopo la vendemmia, i grappoli riposano su graticci di bambù (le cosiddette “arele”) negli appositi locali di appassimento (i “fruttai”) per oltre 100 giorni, durante i quali perdono almeno il 30-40% del peso, a volte anche di più. Questa tecnica di appassimento dell’Amarone è una specialità tipicamente veronese, diversa da quella adottata in aree più calde e assolate come, per esempio, l’isola di Pantelleria, dove l’essiccamento avviene sui graticci esposti al sole e dura appena due settimane. Alcune varietà inoltre sono soggette alla botrite, nota come ‘muffa nobile’ proprio perché esalta le caratteristiche delle uve e donerà al vino una vellutata morbidezza, un corpo rotondo e le tipiche note speziate.
Tra le varietà di uve che tradizionalmente compongono l’Amarone, la Corvina è quella più soggetta alla botrite nella fase dell’appassimento. Le uve appassite sono quindi pigiate tra fine gennaio e inizio febbraio. Nel caso dell’Amarone, i processi di macerazione e fermentazione continuano per 45-50 giorni, e il vino prodotto viene lasciato invecchiare almeno tre anni in legno prima dell’imbottigliamento. Ce n’è abbastanza, insomma, per fare dell’appassimento un fatto culturale, un’attività che segna profondamente lo scenario antropologico della provincia di Verona. È proprio per questo motivo che, dopo dieci anni di raccolta di documenti, Verona è pronta a chiedere la candidatura a patrimonio immateriale dell’Unesco per il “saper fare” Amarone e Recioto, i grandi vini rossi di Verona, attraverso la tecnica dell’accudimento per oltre 100 giorni e appassimento delle uve. La presentazione ufficiale del dossier di candidatura è avvenuta sabato 4 febbraio in apertura di Amarone Opera Prima, dove debutta l’annata 2018.
Tra i punti di forza individuati, l’estensione territoriale dell’appassimento praticato da 8mila persone nei 19 comuni della denominazione. Il documento sarà trasmesso al ministero della Cultura, a quello dell’Agricoltura e alla Commissione nazionale per l’Unesco, l’organismo interministeriale coordinato dal ministero degli Esteri cui spetta il compito di scegliere, entro il 30 marzo, l’unica candidatura italiana da inviare a Parigi per la valutazione. In lizza ce ne sono una quarantina, ma Verona, il Comune più vitato d’Italia con oltre 1.300 ettari di vigne urbane, Regione Veneto e le istituzioni di tre ministeri – Cultura, Agricoltura e Sovranità alimentare, Imprese e made in Italy – ci credono e garantiscono massimo sostegno.
Verona, ricorda Pier Luigi Petrillo, coordinatore del Comitato scientifico, professore e direttore della cattedra Unesco sui Patrimoni culturali immateriali dell’Università Unitelma Sapienza di Roma, “vanta già il riconoscimento nel patrimonio materiale Unesco. Ma l’Organizzazione delle Nazioni Unite per l’educazione, la scienza e la cultura dal 2003 ha iniziato a ricercare quel ‘saper fare’ in cui le persone di una comunità si identificano”. Per queste comunità, spiega Petrillo, “il tempo, l’attesa dell’apppassimento delle uve, sa costruire un valore”. Ora il ministero della Cultura farà le sue valutazioni, ma è importante essere partiti con questa candidatura. “Magari l’Amarone non ha bisogno del riconoscimento Unesco per raggiungere il mercato, ma ne hanno bisogno le persone e l’eventuale riconoscimento servirà a garantire che i fruttai resteranno, così come avviene da 1500 anni, in questo paesaggio”, chiarisce ancora Petrillo. Che conclude: “Il dossier evidenzia che si tratta di una tecnica che rispecchia la storia sociale, politica, economica di questo territorio e ne manifesta la sua evoluzione. Il profondo radicamento culturale e identitario definisce la stessa architettura rurale della Valpolicella: un saper fare che da oltre 1.500 anni identifica questa comunità”.
“Per noi è una candidatura molto importante”, dice il presidente del Consorzio vini Valpolicella, Christian Marchesini, “a tutela di una tecnica di vinificazione che si dimostra identitaria, inclusiva, capace di evolversi con l’innovazione e sostenibile perché con le vinacce si fa il Valpolicella Ripasso”. Aggiunge Marchesini: “questo traguardo è il risultato di un grande lavoro di squadra che ha messo a fattor comune la valorizzazione della Valpolicella e la sua vocazione all’eccellenza. Una unità di intenti e di visione che ha raccolto l’appoggio delle istituzioni, a partire dalla Regione Veneto e dal suo presidente, Luca Zaia. Ora confidiamo che i ministeri deputati a decidere la presentazione della candidatura sappiano riconoscere il valore antropologico e socioeconomico di questa tecnica. Non dimentichiamo, infatti, che la denominazione genera un fatturato di oltre 600 milioni di euro l’anno”.
In effetti, per la denominazione, arrivano notizie positive dal mercato. Secondo l’indagine realizzata per il Consorzio tutela vini Valpolicella da Nomisma Wine Monitor, l’Amarone registra una contrazione in volume del 7,2%, a fronte di un valore in crescita del 4%, a circa 360 milioni di euro franco cantina. Meglio il mercato interno – che incide circa il 40% sulle vendite totali – rispetto all’export: in positivo sia i volumi (+1,5%) che i valori (7,4%) per la piazza italiana; -13%, invece, il quantitativo esportato e una crescita valoriale dell’1,8%. Gli Stati Uniti rappresentano sempre più il mercato estero di riferimento, seguiti da altri 2 top buyer: il Canada e la Svizzera.
Complessivamente, “se il 2021 è stato un anno eccezionale sul piano delle vendite – racconta il presidente del Consorzio tutela vini Valpolicella, Christian Marchesini – il 2022 è servito per consolidare la crescita, con risultati meno eclatanti ma comunque significativi. Lo testimoniano anche gli imbottigliamenti, che registrano un incremento del 12% rispetto al precovid (2019) per un’annata commerciale che è stata comunque la seconda migliore del decennio, con oltre 17 milioni di bottiglie immesse sul mercato”. Insomma, una denominazione che conferma il suo successo e che si conferma in equilibrio, “grazie anche a una stabilizzazione finalmente raggiunta sul fronte della superficie vitata dopo il blocco degli impianti del 2019”, aggiunge Marchesini. E adesso è pronta per lanciare la sfida della candidatura Unesco per riconoscere la tecnica dell’appassimento come un patrimonio immateriale dell’umanità.
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