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Pattuglie, addestramenti e aiuti. I caschi blu italiani in Libano

Circa 1300 militari inquadrati nel contingente di Unifil operano ogni giorno in tutto il settore ovest della parte meridionale del Libano. Fanno parte dell’operazione Leonte, giunta al suo 33esimo mandato: attualmente su base brigata paracadutisti Folgore guidata dal generale Roberto Vergori. Quando i primi peacekeeper italiani giunsero in Libano (i primi elicotteri arrivarono già alla fine degli anni Settanta ma la fanteria nel 1982), il generale Vergori aveva circa dieci anni.

Oggi, dopo anni passati in patria e all’estero col basco amaranto, è in Libano a guidare una missione che per l’Italia e la Folgore ha un significato particolare. È sulle coste libanesi che le forze armate italiane hanno svolto la loro prima missione all’estero dopo la Seconda guerra mondiale. E fu proprio la brigata paracadutisti ad avere un ruolo centrale nelle prime fasi di quell’intervento. Nel mezzo, una serie di aggiornamenti del mandato di Unifil, con il grande spartiacque del 2006, l’anno dell’ultima guerra tra Israele ed Hezbollah e della risoluzione 1701 del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite.

Vergori guida il Settore Ovest di Unifil, composto da circa 3600 “caschi blu” che arrivano da 17 nazioni. L’Italia, con più di migliaio di membri di tutte le forze armate, è uno dei Paesi-chiave della missione. Il loro impegno si articola su diversi livelli: dalle attività con le forze armate libanesi al monitoraggio e alla messa in sicurezza del territorio di propria competenza fino alla prevenzione di qualsiasi atto ostile che possa mettere a rischio il precario equilibrio della “Blue Line”, la linea di demarcazione controllata da Unifil che separa le forze israeliane da quelle libanesi.

Lo scopo di questo lavoro è sia quello di evitare qualsiasi attrito tra forze libanesi e israeliane, sia di fare in modo che siano solo le forze regolari di Beirut e non altre organizzazioni paramilitari ad avere la capacità di controllo del territorio. Il contributo italiano si articola poi in varie componenti specialistiche, tra cui un ruolo particolare lo possiede la componente elicotteristica dell’Esercito della task force Italair (guidata dal comandante Giuliano Innecco), che svolge non solo missioni di pattugliamento, ma anche di ricerca, soccorso e trasporto feriti.

All’operato più propriamente militare, si unisce quello “politico”: perché la missione delle Nazioni Unite lavora su diversi piani. Proprio per questo motivo, quello che viene svolto dai militari italiani è anche un continuo relazionarsi con le autorità civili e religiose di tutta la regione sud-occidentale del Libano, mantenendo sempre un contatto con la popolazione e con i suoi rappresentanti che garantisca di avere il polso di cosa ribolle a sud del fiume Litani. Un tema fondamentale, dal momento che è anche da questo fronte che passa la buona riuscita della missione: non solo dell’operazione Leonte, specificamente italiana, ma di tutta Unifil.

Quello del rapporto tra popolazione, autorità e militari italiane è un filo rosso che lega il pensiero di tutti i membri di “Leonte”. Si parte dall’addestramento prima della missione, che si caratterizza anche per uno studio del teatro operativo per capire tutte le sfaccettature e le complessità del Paese dove si opera. Poi si passa al proprio lavoro sul campo, con un impegno sia eminentemente “militare” (pattugliamenti, addestramenti e attività con le Lebanese armed forces e controllo del territorio) sia sociale e politico. Nella base di Al Mansouri, il colonnello Dario Paduano, comandante di Italbatt, ci conferma che vengono svolte “moltissime attività nell’ambito della cooperazione civile-militare che sono tese a dare supporto alle comunità locali, ai villaggi, dove abbiamo tante richieste”.

Un tema essenziale soprattutto in una fase così critica per il Libano, devastato da una crisi che appare sempre più difficile da gestire, andando a intaccare la politica, l’economia, la società fino ai più essenziali bisogni della popolazione.

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