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Per la comunità scientifica è tempo di autocritica. Con buona pace di Burioni – Gianluca Spera

Nei giorni scorsi, sulle pagine de La Stampa è andata in scena una vivace polemica tra Mattia Feltri e l’onnipresente Roberto Burioni. Motivo del contendere: il trionfo di Novak Djokovic agli Australian Open.

Ad accendere la miccia ci ha pensato Feltri che, ritenendo ingiustificate le intemerate riservate all’asso serbo, nel suo Buongiorno si è scagliato contro “le enunciazioni imperiose” di alcuni esperti, particolarmente esposti sul piano mediatico (tra cui proprio Burioni), condivisibili – a suo parere – solo quando eravamo in emergenza (su questo punto resta la forte perplessità di chi scrive).

Buongiorno, Feltri

Ora, invece, con il virus ormai endemico e molto meno pericoloso, “insistere con le enunciazioni imperiose segnala che, sulle libertà e sul mondo in cui viviamo, stavolta a non capirci più nulla sembrano gli imperiosi enunciatori”. Be’, Feltri solleva una questione che i lettori di Atlantico Quotidiano conoscono alla perfezione: la persistenza della narrazione tremendista pure a pandemia terminata.

Meglio tardi che mai, verrebbe da osservare. Tuttavia, pure quella che appare come un’affermazione di buon senso ha urtato la suscettibilità di Burioni il quale ammette che il virus è nella fase terminale ma non ci sta ad ammainare la bandiera.

Burioni non si arrende

Djokovic, con il suo comportamento, è diventato un idolo per i pericolosi complottisti che non credono alla medicina e la sua vittoria sportiva un gagliardetto da sventolare in faccia a chi in questi mesi della scienza si è fidato, consentendoci con questo comportamento di tornare a una relativa normalità.

Soprattutto non troppo zelo, gli avrebbe suggerito il principe Talleyrand se solo avesse conosciuto il nostro Burioni. Ma lui è inflessibile e non arretra di un millimetro dalla trincea pandemica: ”L’anno scorso Djokovic si è fatto cacciare dagli Open di Australia per non farsi somministrare un farmaco efficace e sicuro che avrebbe protetto la sua salute e quella degli altri (siamo dalle parti del “Green Pass è garanzia di ritrovarsi tra persone non contagiate o non contagiose” di draghiana memoria, ndr)”.

E, quindi, così ha concluso: “Insomma, i toni potranno pure essere eccessivi, ma è pur vero che ci sono Campioni e campioni”. Ecco, secondo Burioni, Djokovic è un campione con la “c” minuscola perché non ha seguito i precetti del credo pandemico, difendendo la sua libertà di scelta anche a costo di rinunciare a importanti tornei.

Perciò, viene trattato alla stregua di un miscredente, di un eretico, di un blasfemo. Eppure, se solo il tennista serbo intendesse replicare, potrebbe allegare un recente articolo di Newsweek che si aggiunge a quello del Wall Street Journal di cui abbiamo dato conto la scorsa settimana.

Ora riconoscere gli errori

L’autorevole rivista statunitense ha ospitato un intervento del ricercatore Kevin Bass dal titolo assai eloquente: “È tempo per la comunità scientifica di riconoscere di aver sbagliato sul Covid e che questi errori sono costati vite”.

La critica dello scienziato texano è stata indirizzata alle massime autorità sanitarie del suo Paese, ree di aver fuorviato i cittadini strumentalizzando le informazioni su aspetti cruciali della vicenda, come la sottovalutazione della immunità naturale rispetto a quella indotta da farmaco, l’eccessiva enfatizzazione della chiusura delle scuole come strumento per rallentare il contagio, la diffusione del virus attraverso l’aerosol, l’insistenza sulle mascherine obbligatorie e sulla campagna di vaccinazione estesa anche ai più giovani nonostante i rischi di reazioni avverse.

Tutte indicazioni dogmatiche che sono state puntualmente smentite da successivi studi scientifici. Bass ha scritto che, nelle fasi inziali, qualche abbaglio poteva essere anche giustificato ma adesso non più.

Demonizzazione e censura

Poi, si è soffermato anche sul trattamento riservato a chi ha fortemente criticato questa strategia o a che si è mostrato semplicemente scettico:

Abbiamo dipinto coloro che si opponevano ai nostri sforzi come individui ignoranti, egoisti e malvagi. Abbiamo reso la scienza uno sport di squadra e, così facendo, l’abbiamo resa non più scienza. Si è trasformata in un noi contro di loro, e “loro” hanno risposto nell’unico modo in cui chiunque potrebbe aspettarselo: resistendo.

Non è mancato il passaggio sulle prestigiose voci scientifiche che sono state incredibilmente silenziate:

I professori di Stanford di fama mondiale John Ioannidis, Jay Bhattacharya e Scott Atlas, o i professori dell’Università della California di San Francisco Vinay Prasad e Monica Gandhi, hanno dovuto affrontare una severa censura da parte di folle implacabili di critici e detrattori.

Danni collaterali

Insomma, secondo lui, un approccio meno rigido e meno arrogante avrebbe salvato più vite e non avrebbe provocato la pericolosa radicalizzazione della società che si è pure manifestata con l’aumento dei crimini e di episodi di violenza.

Per non dire dei disastri sul piano sanitario certificati dalle sindromi depressive e dagli stati di ansia moltiplicati a dismisura nella popolazione post pandemica. Così come non si può tacere sul crollo dei risultati scolastici tra i più giovani per effetto di chiusure e didattica a distanza.

Perdita di fiducia

Bass, più in generale, ha parlato di una perdita di fiducia delle persone nei confronti delle autorità scientifiche e di quelle politiche, queste ultime colpevoli di aver cospirato con i big dell’informazione mainstream per sopprimere le contestazioni ed esporre i dissidenti al pubblico ludibrio bollandoli come scientificamente analfabeti.

L’effetto collaterale di questa impostazione autoritaria è stata la disintegrazione del tessuto civile delle società occidentali.

Una seria autocritica

Solo una seria autocritica potrebbe correggere tutte le storture evidenziate da Bass il quale teme, però, che non si arrivi mai ad ammettere l’approccio sbagliato per il timore di doversi assumere delle responsabilità davanti all’opinione pubblica.

Tuttavia, seppure con questa nota di pessimismo conclusiva, il coraggioso ragionamento del ricercatore americano non fa una grinza e sarebbe utile per aprire un ampio dibattito anche laddove i tabù sanitari sono ancora incrollabili. Dovrebbe, in definitiva, servire da lezione per quelli che Feltri ha definito “imperiosi enunciatori”. Per loro, lo zelo non è mai troppo.

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