Il terremoto del 6 febbraio non ha di certo guardato al posizionamento di trincee e barricate. Ha colpito sia i territori siriani controllati dal governo che quelli in mano alle milizie. I cataclismi del resto ricordano a tutti il primato della natura su ogni aspetto umano. Una scossa, un tifone o un’onda anomala sono capaci di travolgere tutto quello che l’uomo ha creato o già distrutto in una determinata area.
La storia è piena di esempi di eventi naturali che hanno generato grandi cambiamenti politici. La domanda quindi adesso sorge spontanea: cosa accadrà in Siria? Come evolverà lo scenario di un Paese in guerra dal 2011 e che ancora oggi non riesce a trovare un minimo di pace?
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Il terremoto di Messina e gli effetti sulla politica internazionale
La notte del 28 dicembre del 1908 una scossa di terremoto con epicentro nello stretto di Messina ha provocato la distruzione della città siciliana e di Reggio Calabria. Con una magnitudo di 7.1 della scala Richter, il sisma ha generato anche uno tsunami amplificando così i danni e distruggendo molte comunità lungo la costa sia della Sicilia che della Calabria.
Un dramma che ha provocato più di 75mila vittime. E che, sotto il profilo politico, ha lasciato strascichi molto importanti. L’Italia ha infatti avuto una solidarietà internazionale senza precedenti. A Messina, poche ore dopo il terremoto, sono arrivate navi russe in quel momento presenti in prossimità della Sicilia. Poi è stata la volta di inglesi, francesi, greci e spagnoli. Il sindaco della Città dello Stretto, alla vista del Re Vittorio Emmanuele III sbarcato la mattina del 30 dicembre, ha denunciato l’arrivo dei russi prima ancora degli italiani.
Il governo non a caso è stato oggetto di numerose critiche da parte della stampa nazionale. Il Regno d’Italia, alla sua prima vera prova dal momento dell’unità, si è dimostrato ancora poco maturo per affrontare determinate catastrofi. È pur vero però che il cataclisma ha creato un forte senso di solidarietà tra italiani: da tutta la penisola sono arrivati aiuti, volontari e donazioni frutto di spontanei comitati sorti dopo la diffusione delle immagini delle macerie. Non sono pochi gli storici che ritengono che il sisma abbia accelerato il processo di creazione di un sentimento nazionale. Una sorta di anticipazione di quanto accadrà, pochi anni dopo, con la grave sciagura della prima guerra mondiale.
Ma forse l’episodio più noto a livello politico è un altro e ha a che fare con quanto accaduto, in quegli stessi giorni, a Vienna. Molti documenti desecretati oggi confermano che alcuni generali austriaci hanno provato a convincere l’imperatore ad invadere l’Italia. Il capo di stato maggiore, Franz Conrad von Hötzendorf, è stato tra i primi a pensare di approfittare della distrazione del nostro regio esercito per invadere il territorio italiano e riprendersi il Lombardo-Veneto.
Tutte le principali unità dei soldati sono state inviate al sud per prestare soccorso, sguarnendo in parte i confini settentrionali. Del resto, come fa notare Federico Trocini in un articolo pubblicato sul sito della Fondazione Salvemini, i rapporti tra Italia e Austria in quel momento erano ai ferri corti. Tanto che parte del governo ha inizialmente attribuito la devastazione a Messina a un bombardamento austriaco.
Le autorità di Vienna, così come quelle di Berlino, hanno però persuaso i generali più recalcitranti dall’intraprendere avventure militari. Roma era infatti ancora parte della Triplice Alleanza e si volevano evitare in quella fase nuovi capovolgimenti dei rapporti. La mancata invasione austriaca però testimonia come un evento naturale di grandi proporzioni possa rappresentare un elemento detonatore di un conflitto o, al contrario, un vero e proprio freno per nuove operazioni.
Il caso dello tsunami del 2004
Andando a tempi più recenti, un esempio analogo è arrivato il 26 dicembre 2004 dal sud est asiatico. Quel giorno uno dei terremoti più forti di sempre registrato nell’Oceano Indiano, ha generato onde di tsunami capaci di devastare tutti i Paesi dell’area. Una catastrofe che ha provocato quasi 300mila morti e che ha inciso direttamente su due conflitti: quello dello Sri Lanka e quello dell’isola di Sumatra, in Indonesia.
Nel primo caso, l’onda ha acuito le distanze tra il governo di Colombo e i guerriglieri Tamil. Tanto che l’anno successivo, con l’arrivo di Mahinda Rajapaksha alla presidenza, la guerra è tornata a essere ad alta intensità e nel 2009 il governo ha potuto annunciare la vittoria sui rivali. Nel secondo caso invece, lo tsunami è servito come elemento in grado di frenare il conflitto. I guerriglieri del Movimento per l’Aceh Libero, dopo il cataclisma hanno proclamato il cessate il fuoco per far giungere gli aiuti e i soccorsi alla popolazione. Jakarta a sua volta ha deciso di allentare la morsa sulle aree di guerra e l’anno dopo in Finlandia è stato così firmato un accordo di pace che ha posto fine a più di trent’anni di guerra.
Cosa succederà in Siria?
Di fronte a questi esempi, è interessante analizzare cosa potrebbe succedere alla luce del devastante sisma del 6 febbraio nella Siria ancora vittima della dura guerra civile che prosegue, a bassa intensità, nonostante gli occhi distolti del mondo e del frazionamento del Paese.
Il terremoto unisce la Siria come poche cose nell’ultimo decennio. Idlib, controllata dai ribelli dell’Esercito siriano libero, e Aleppo, simbolo della vittoria strategica del governo di Bashar al-Assad, sono ugualmente colpite. Per una volta, tutto il mondo ha parlato all’unisono di “popolo siriano” come vittima senza doppi fini politici o tentativi di dividere in buoni e cattivi gli attori in gioco. Addirittura l’arcinemico israeliano si è detto pronto ad aiutare Damasco e oggigiorno il tema del futuro della Siria è tornato all’ordine dell’agenda.
Per molte nazioni la tragica vicenda del sisma ha fornito l’occasione per i primi contatti diretti con la nazione mediorientale dopo diverso tempo. Ne é un esempio il fatto che Antonio Tajani, Ministro degli Esteri italiano, abbia fatto sponda con il nunzio apostolico Mario Zenari per accertarsi della condizione delle vittime del sisma.
Ben diciassette Paesi dell’Ue, a cui si aggiungono i membri Nato Albania e Montenegro, hanno offerto squadre di ricerca e soccorso urbano e squadre mediche di emergenza per sostenere i primi soccorritori sul campo. “Un alto funzionario umanitario delle Nazioni Unite ha detto che anche la carenza di carburante in Siria e il rigido clima invernale stanno creando ostacoli alla sua risposta”, nota il Guardian che ha sentito fonti Onu. In quest’ottica, è chiaro che per portare aiuto all’intera popolazione sarà necessario trovare un accordo politico, pena una gravissima catastrofe umanitaria.
Il sisma è per Assad ciò che la crisi energetica è stata per il Venezuela di Nicolas Maduro: l’attestazione del fatto che l’Occidente non può ignorare lo status quo e la sua “esistenza”. Un tema fondamentale e dimenticato, che per un artificio storico può aprire alla prospettiva di un ritorno al dialogo. Dalla tragedia alla riconciliazione? Non è detto che il passaggio sia così netto. Ma ribelli e governativi, filoturchi e filorussi, proxy occidentali e alleati dell’Iran, curdi e alawiti sono tutti uniti oggigiorno dalla comune tragedia del post-sisma e del duro inverno. Capace di riportare, forse solo per poche settimane, gli occhi del mondo su Damasco e dintorni.
In quest’ottica la tregua bellica imposta dal sisma deve essere sfruttata per porre politicamente il tema dell’unità della Siria e della fine del conflitto in tempi ragionevoli. Pena nuove devastazioni e nuovi problemi strutturali. E la nazione che potrebbe trovare un beneficio d’immagine in questo campo è nientemeno che la Russia di Vladimir Putin, che deve mostrarsi ancora parte della comunità internazionale: “Dopo anni di veti russi e pressioni sia militari che diplomatiche, la missione di aiuto delle Nazioni Unite nella regione è limitata a un solo valico di frontiera dalla Turchia”, ha scritto il Middle East Institute. “Inoltre, lo sforzo delle Nazioni Unite è progettato per l’assistenza umanitaria, non per i soccorsi in caso di calamità e il soccorso di emergenza”.
Mosca e Ankara devono intendersi per far arrivare i soccorsi, che la Turchia chiede in primo luogo per sé, anche alla Siria e fornire la base per quel pivot diplomatico in via di sdoganamento negli ultimi tempi con la mediazione di Mosca per un riavvicinamento Ankara-Damasco. Al contempo, dovranno evitare che la Siria torni, per la sua vulnerabilità, appetibile per nuove conflittualità. Un rischio che esiste. Quel che è certo è che Damasco e dintorni non saranno più come negli ultimi tempi, dopo il sisma. E la crisi siriana tornerà all’ordine del giorno nell’agenda delle potenze. Un punto chiave che rende meno remote le prospettive di un suo congelamento o di una sua durata pressoché illimitata.
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