di Aurelio Porfiri
Alcuni anni fa Vittorio Messori pubblicò un bel libro dal titolo Scommessa sulla morte. La storia di questo libro è interessante. Nel 1976 lo stesso Messori aveva pubblicato il suo primo libro, Ipotesi su Gesù, un successo editoriale clamoroso. Ed ecco che l’editore, fiutato il successo commerciale, chiese di poter avere un altro libro. L’autore era incerto, titubava. Poi decise di scrivere un libro, appunto, sulla morte. All’editore vennero i brividi: la morte? Non era certamente un tema che avrebbe attirato molti lettori. Perché la morte fa paura e cerchiamo di tenercene ben lontani. Eppure anche questo libro fu un grande successo.
Un poco non possiamo che simpatizzare con l’editore, perché in effetti la morte è la grande barriera che ci separa da quello che c’è, o non c’è, oltre. Tutti noi abbiamo l’umano timore di quel momento supremo: è naturale e umano. Il trattato di spiritualità medievale L’imitazione di Cristo ci ammonisce con le sue parole così dense di significato: “Ben presto la morte sarà qui, presso di te. Considera, del resto, la tua condizione: l’uomo oggi c’è e domani è scomparso; e quando è sottratto alla vista, rapidamente esce anche dalla memoria. Quanto grandi sono la stoltezza e la durezza di cuore dell’uomo: egli pensa soltanto alle cose di oggi e non piuttosto alle cose future. In ogni azione, in ogni pensiero, dovresti comportarti come se tu dovessi morire oggi stesso; ché, se avrai retta la coscienza, non avrai molta paura di morire. Sarebbe meglio star lontano dal peccato che sfuggire alla morte. Se oggi non sei preparato a morire, come lo sarai domani? Il domani è una cosa non sicura: che ne sai tu se avrai un domani? A che giova vivere a lungo, se correggiamo così poco noi stessi?”. Sono parole di cui non ci sfugge l’incombenza.
Noi siamo seguaci di quel Cristo che si è fatto obbediente fino alla morte, e alla morte di croce: Christus factus est pro nobis oboediens usque ad mortem, mortem autem crucis. San Paolo nella lettera ai Filippesi ci presenta nostro Signore che si sottopone alla morte per poi essere esaltato con il nome che è sopra ogni altro nome. Il canto gregoriano ci fa pregustare queste parole con una bella melodia ornata e quasi serena, come per dirci che l’accettazione di questa morte è stata all’insegna della volontà di fare la volontà del Padre. Nelle tante versioni polifoniche, spesso viene fuori lo sgomento della morte del Signore. Christus factus est ci interroga secolo dopo secolo, perché noi seguiamo la religione di qualcuno che ha scelto di morire pur proclamandosi Figlio di Dio. Se è Figlio di Dio, che salvi sé stesso! Queste parole dei capi degli ebrei fanno capolino nelle nostre menti: perché non si è salvato? Perché? Ma questo è ragionare da uomini, non da Dio. Noi non possiamo smettere di sentire il peso della nostra umanità e facciamo fatica ad abbandonarci a quello che Dio ci dice.
La vera musica sacra in questo ci aiuta, perché costruisce un ponte con cui possiamo intravedere l’abisso di luce di luce di cui ci parlava Giovanni Paolo II nella Lettera agli artisti. Attraverso le melodie celestiali del canto gregoriano impariamo a soffrire da cristiani, e nella polifonia abbiamo l’uomo che soffre, lotta e spera. Possa l’esempio di Cristo mostrarci come affrontare con la più grande dignità il momento estremo.
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