Da quando la terra ha tremato violentemente il 6 febbraio scorso, il sisma ha iniziato a riplasmare la geopolitica turca. Questo non solo perché la corsa agli aiuti ha rivelato una postura internazionale differente nei confronti di Erdogan e del suo Paese, ma perché la tragedia sta modificando radicalmente la permeabilità delle frontiere turche: Ankara, oggi, sembra meno un “fortino assediato”. Quanto durerà questo stato di grazia? Stiamo per assistere a una ridefinizione del Caucaso? Difficile dirlo, vista la fragilità dell’area e le numerose acredini sedimentatesi nel tempo: tuttavia, mentre si contano ancora le innumerevoli vittime, qualcosa di epocale sta accadendo lungo i confini della Turchia.
L’apertura della Grecia
Il Mediterraneo orientale, negli ultimi due anni, era tornato ad essere il teatro della guerra fredda tra Turchia e Grecia. Eppure, il primo rappresentante europeo a recarsi in Turchia è stato proprio il ministro degli Esteri greco, Nikos Dendias. Dendias è stato accolto in quel della provincia di Adana dal suo omologo Mevlut Cavusoglu che si è affrettato a dichiarare quanto sia “importante il sostegno greco in questi giorni difficili”. Soltanto ieri, durante una conferenza stampa ad Ankara con l’omologo israeliano in visita Eli Cohen, Cavusoglu ha inviato un messaggio di normalizzazione delle relazioni della Turchia con i paesi del Mediterraneo orientale, tra cui Israele e Grecia. “Vogliamo stabilità e pace nella nostra regione. I passi che abbiamo compiuto per normalizzare le nostre relazioni con i paesi della regione, in particolare con Israele, sono evidenti. Spero che la nostra solidarietà durante questo terremoto sia decisiva anche per aprire una nuova pagina con la Grecia. Pertanto, come tutti i paesi della regione, dobbiamo continuare a lavorare per la stabilità, lo sviluppo economico e la pace della nostra regione”, ha affermato.
Nel frattempo, la stampa stressa come mai prima questo riavvicinamento: il quotidiano turco Hurriyet, nella sua prima pagina di martedì scorso, ha ringraziato la Grecia titolando con “Efxaristo poli file” (“grazie mille amico”, in greco) per ringraziare pubblicamente i membri dell’unità di soccorso dell’EMAK in Grecia dopo il completamento della loro missione. Un gesto tutt’altro che simbolico.
Armenia: un confine rimasto chiuso trent’anni
Le ragioni della discordia tra Armenia e Turchia affondano le radici nella notte dei tempi. Da circa trent’anni il valico di Margara e il ponte stradale che permette di attraversare il fiume Aras fino all’altopiano anatolico giacevano deserti e inattraversati: lo scorso sabato, proprio da questa rotta, sono transitati cinque tir di aiuti umanitari partiti da Erevan per raggiungere le zone colpite dal terremoto, dove era già all’opera una squadra di soccorritori armeni. La Turchia aveva chiuso la frontiera nel 1993 durante la prima guerra del Karabakh tra Armenia e Azerbaigian. Dopo la seconda guerra del Karabakh, nel 2020, gli sforzi per normalizzare le relazioni – compresa la riapertura del confine – sono stati ripresi, anche se finora non hanno dato frutti significativi.
A corredo dell’apertura delle frontiere, ieri la visita storica del ministro degli Esteri armeno Ararat Mirzoyan in Turchia: “Considero simbolico che sabato il confine armeno-turco, chiuso da 30 anni, sia stato aperto ai camion armeni carichi di aiuti umanitari diretti ad Adiyaman”, ha detto Mirzoyan durante una conferenza stampa congiunta con l’omologo turco Cavusoglu. Quest’ultimo ha affermato che l’assistenza umanitaria rafforzerà i negoziati per il ripristino dei rapporti diplomatici tra Armenia e Turchia e l’apertura del loro confine condiviso e che “Il processo di normalizzazione continua nel Caucaso meridionale”. Ma c’è di più: dai due Paesi sembra chiara l’intenzione di cogliere il momento. Mirzoyan ha affermato che i ministri degli Esteri hanno raggiunto un accordo per riparare congiuntamente il ponte di Ani e ripristinare altre infrastrutture lungo il confine tra Armenia e Turchia.
La visita di Mirzoyan in Turchia è stata accolta in modo ambiguo a Baku. Alcuni non hanno nascosto il loro stupore per le azioni di Ankara, mentre altri vi vedono la speranza per la pace nella regione. Baku sta parzialmente guardando con malcontento il riavvicinamento tra Yerevan e Ankara, a giudicare dall’anti-propaganda circa l’assistenza dell’Armenia alle regioni: un comportamento “da fratellino viziato”, commentano molti sostenitori dell’apertura. Del resto, l’Azerbaigian può trarre il massimo vantaggio da un riavvicinamento diretto tra Turchia e Armenia. Azerbaigian e Armenia potrebbero essere prossime alla firma di un trattato di pace, e se la Russia dovesse perdere in Ucraina, potrebbe, con le ossa rotte, abbandonare anche questo campo. Il triangolo Baku-Ankara-Erevan potrebbe, dunque, diventare un prerequisito di stabilità e prosperità nell’area.
Il confine siriano
La riapertura dei valichi di Bab Al-Salam e Al Raee, per un periodo iniziale di tre mesi è un’altra delle svolte epocali di questi giorni. La Russia, alleato chiave di Assad, e la Cina avevano posto il veto dal 2020 all’uso di altri valichi con la Turchia. Fino ad ora, hanno insistito sul fatto che tutte le altre consegne delle Nazioni Unite dovessero passare da Damasco e attraversare la linea del fronte, anche se solo 10 di questi convogli sono stati approvati durante tutto lo scorso anno. Tuttavia è questa l’apertura che genera più dubbi, al di là del suo significato simbolico. Questa opzione, sebbene accettabile a breve termine, non è né abbastanza lunga né abbastanza robusta per far fronte alla portata del dramma umanitario nel nord-ovest della Siria. Le autorizzazioni transfrontaliere dovrebbero inoltre basarsi su una base giuridica più solida, non solo sulla parola del governo siriano. Poiché l’autorizzazione è arrivata dal governo di Assad, non dalle Nazioni Unite, non esiste alcuna base legale o normativa in base alla quale il regime sia obbligato a lasciare aperte le frontiere.
Paesi con relazioni amichevoli con Assad, tra cui Russia, Iran ed Emirati Arabi Uniti, hanno iniziato a inviare rifornimenti alle aree controllate dal governo della Siria subito dopo che i terremoti hanno colpito la vicina Turchia, ma il nord-ovest controllato dall’opposizione – dove circa 4,1 milioni di persone facevano affidamento sull’assistenza umanitaria per sopravvivere anche prima del disastro – non ha ricevuto aiuti dalle Nazioni Unite attraverso la Turchia fino a giovedì scorso. Le Nazioni Unite hanno puntato il dito verso i danni alle strade che portano al valico di Bab al-Hawa, che è l’unica via terrestre che il Consiglio di sicurezza dell’Onu ha autorizzato a utilizzare. A partire dallo scorso 13 febbraio, 58 camion di aiuti sono entrati nell’enclave dell’opposizione, trasportando cibo, tende e medicinali. Tuttavia, non includevano i macchinari pesanti e altre attrezzature specialistiche richieste dai Caschi Bianchi; Raed Al Saleh, il loro direttore, contesta fortemente l’atteggiamento conciliante delle Nazioni Unite verso Assad e ha affidato il suo risentimento ad un editoriale al vetriolo sulla Cnn, nel quale spara a zero sul Palazzo di Vetro.
Un’onda lunga per la “earthquake diplomacy“?
Al di là di dubbi e resistenze, quella che è già stata ribattezzata earthquake diplomacy è un dato di fatto, ove si mescolano umanità, interessi, prospettive. Qualora l’emergenza umanitaria dovesse protrarsi, risulta difficile immaginare un fulmineo dietro front rispetto alle aperture politiche attuali: il Caucaso, tuttavia, ha abituato a colpi scena continui, per cui nulla è impossibile. Quello che è tangibile è che Erdogan è riuscito a trasformare questa tragedia in un vigoroso “concerto di nazioni” che da Ankara si proietta all’estero e che dall’estero tende la mano ad Ankara. Oggettivamente, al di là degli scopi elettorali del presidente turco, il terremoto ha costretto questa fetta di Caucaso a muoversi, testando meccanismi di cooperazione, efficienza di mezzi e uomini, relazioni bilaterali complicate o addirittura chiuse. Questo è un dato di fatto, un cambio di passo resosi necessario da una brusca quanto tragica accelerazione degli eventi.
I prossimi mesi costituiranno, perciò, lo stress test di questi riallineamenti, con effetti che potrebbero propagarsi anche in ambito Nato. Anche Svezia e Finlandia, al centro di una disputa con Ankara sulla loro membership nell’Alleanza atlantica, si sono prodigate in aiuti umanitari. Questo potrebbe ammorbidire la posizione della Turchia nei confronti dei candidati alla Nato? In fondo è già accaduto. Quando nel 1999 un potente terremoto colpì vicino Izmit, i greci furono tra i primi a rispondere con aiuti, nonostante decenni di inimicizia tra i due vicini. Pochi mesi dopo, quando un terremoto di magnitudo 6.0 colpì Atene, i turchi ricambiarono. Quel cambio di passo portò la Grecia ad abbandonare le sue obiezioni al fatto che la Turchia diventasse un Paese candidato all’adesione all’UE, ormai più di vent’anni fa.
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