Se pur non se condivide il percorso, il travaglio del Pd costituisce un problema serio per l’equilibrio politico del nostro Paese, dato il ruolo assunto di partito capace, a seconda del risultato elettorale, di sedere al governo e all’opposizione, classico interprete di quell’alternarsi al potere che costituisce il requisito essenziale, se pur non esclusivo, del gioco democratico.
Cambiare nome non basta
Non si tratta ovviamente di cambiare a cuor leggero il nome, dato che questo costituisce il primo riferimento identitario almeno per lo zoccolo duro dell’elettorato, che ne garantisce, comunque, una sopravvivenza effettiva, sì da richiedere di essere questione da trattare con cura.
Lo si è fatto in un paio di occasioni, da Pci a Pds e da Pds a Pd, ma accompagnando ed enfatizzando vere e proprie rifondazioni: la prima a segnare la fine definitiva del partito russofilo e classista, peraltro esaltando Berlinguer e oscurando Occhetto, che ne fu il vero autore; la seconda, a sancire l’uscita dall’Ulivo e la fusione con la Margherita.
Oggi sembrerebbe servire principalmente a far dimenticare un autentico collasso elettorale dopo il picco raggiunto nelle elezioni europee del 2014, calcolabile in svariati milioni di voti persi, ma di per sé solo non sarebbe sufficiente, dovrebbe in primis far sparire dalla scena pubblica tutta la dirigenza attuale a cominciare da quella nazionale, la quale, ben consapevole della sua resilienza, sembra limitarsi a giocare in seconda o terza fila.
Questo sì sarebbe di per sé il cambiamento più radicale immaginabile, dato che i programmi camminano con le gambe degli uomini, sì da essere declinabili in tempi e modi diversi a seconda di chi siano quelli che vi devono dare attuazione.
D’altronde, a sentire chi lo sostiene, il cambio del nome dovrebbe enfatizzare un cambio del contenuto identitario il quale, quindi, diviene l’obiettivo privilegiato, come se fosse qualcosa che possa scaturire da un dibattito come una realtà che già esiste e deve essere solo individuata, richiamando così il detto popolare a proposito dell’araba fenice (ognun sa che c’è, ma nessuno sa dov’è).
La malattia cronica
La malattia ormai cronica del nostro Pd è data dalla convivenza paralizzante di una “destra” e di una e “sinistra” , ciascuna troppo debole per prevalere ma al tempo stesso troppo forte per essere sconfitta, che tollerano segretari costretti ad effettuare percorsi a zigzag, coniugando ma non conciliando spinte “destrorse” sulla politica estera e spinte “sinistrorse” nella politica interna.
Manifestate, le prime, in una rigida posizione europeista e atlantica, con – a sua versione esemplare – la piena condivisione della fornitura di armi all’Ucraina, che è stata enfatizzata nel corso della campagna elettorale con la presunzione di mettere in difficoltà l’alleanza di centrodestra, delegittimandola agli occhi di Bruxelles e di Washington.
Espresse, le seconde, in una ambigua visione assistenziale, con – a sua versione emblematica – l’emergere di una distinzione paleo-marxista fra lavoratori subordinati e autonomi, dove questi ultimi sarebbero i protagonisti principali se non unici di una evasione fiscale responsabile della limitatezza delle risorse pubbliche altrimenti spendibili in uno autentico Stato sociale, fra cui anche il reddito di cittadinanza recuperato sostanzialmente all’indomani della consultazione elettorale, vista la rendita che i 5 Stelle ne hanno conseguito, specie nel Meridione.
Da dove ricominciare?
Da dove si dovrebbe ricominciare? Con una buona dose di realismo verrebbe da dire dal suo elettorato, molto meno rappresentativo di quello che il Pd si illude e illude di essere, cioè delle classi subalterne del Paese.
Una volta confermato che la sua base residua è fra i pensionati, i pubblici dipendenti, i ceti medi dei grandi centri urbani, gli occupati nell’industria culturale, trova conferma la condanna ad essere un partito prevalentemente attestato sulla redistribuzione, quasi tutta giocata sulla presunta disponibilità di risorse occulte, rastrellabili tramite non solo una politica anti-evasione ma anche una accentuazione della progressività fiscale.
Ma la praticabilità è illusoria, in una stagione di alta inflazione e di possibile recessione, esponendosi così alla fin troppo facile concorrenza da parte dei 5 Stelle, che, per via di una misura risultata meramente assistenziale, il reddito di cittadinanza, si sono fatti protagonisti di un meridionalismo tutto all’insegna di un riparto a favore del Sud del flusso di denaro pubblico, come se il passato non avesse dimostrato essere questo del tutto insufficiente, e al limite controproducente, per il diffondersi di uno spirito autenticamente imprenditoriale.
Spazio di manovra limitato
Quella che si annuncia è una legislatura che sembra limitare pesantemente lo spazio di manovra dell’opposizione parlamentare, fra l’altro divisa in tre tronconi con profili identitari poco o nulla convergenti, sì che diverrà molto importante portare fuori del Parlamento rivendicazioni capaci di coinvolgere non la solo la gente sulla base di obiettivi comuni.
Ieri l’ecologia e la politica anti-discriminazione sessuale, domani la contrarietà ad una riforma presidenzialista o alla divisione delle carriere fra magistratura inquirente e giudicante, dove il Pd dovrà cercare di essere un protagonista di punta, senza peraltro potere rivendicarle come del tutto sue, a costo di ridurne la partecipazione.
Ma la peculiarità del Pd, che per questo meriterebbe semmai di essere ribattezzato come Partito del lavoro, è l’individuazione e la promozione di un soggetto collettivo capace di esercitare una egemonia nel mondo della produzione, in ragione del know how posseduto: i professionisti, comunque inquadrati, lavoratori subordinati o autonomi, visti come il perno di una alleanza destinata a coprire tutto il fattore lavoro, fatti i debiti distinguo, ieri, nella realtà fordista, l’operaio di massa; oggi, nella realtà postindustriale, l’esperto digitale.
Quella che ha fatto difetto al Pd è stata la presa di coscienza della profonda trasformazione della realtà socioeconomica di riferimento soggetta ad una continua accelerazione tecnologica, con conseguente emersione di un tale soggetto collettivo.
Il partito della distribuzione
Non può essere che, una volta superato lo stato di partito antagonista rispetto al sistema di mercato, si caratterizzi come un partito della distribuzione e non anche della produzione.
A suo tempo, a cominciare dalla mia regione, l’Emilia-Romagna, vi si parlava di alleanza dei ceti produttivi, ma di questa si è come spenta la traccia, se la battaglia viene condotta mobilitando il lavoro subordinato contro il lavoro autonomo, dando per scontato che si tratti ancora di due grandi aggregati internamente omogenei, caratterizzati dall’essere o meno in grado di evadere il fisco.
Non è affatto così: ormai l’egemonia – se così la vogliamo chiamare – passa alle nuove professionalità, presenti in entrambe le forme di lavoro, sostanzialmente coincidenti i termini di autosufficienza operativa, senza alcuna soluzione di continuità fra loro, divenendo così un potenziale blocco sociale del tutto determinante sullo sviluppo stimolato dalla attuazione del Pnrr.
Seguire la Cgil nella rivendicazione di una posizione subordinata il più diffusa ed ampia possibile con la finalità di privilegiare l’applicazione di una disciplina legale e contrattuale estremamente protettiva, ma tale da uniformare in via di qualificazione giuridica fenomeni non equiparabili, senza farsi carico di questa “nuova classe”, significa autocondannarsi a rimanere attardata su una concezione divenuta anacronistica.