Il governo iper-nazionalista di Benjamin Netanyahu, il più identitario e divisivo sul piano etno-sociale della storia di Israele, ha come primo obiettivo di politica estera espandere gli Accordi di Abramo e consolidare le relazioni diplomatiche coi Paesi del Golfo.
Può sembrare una contraddizione solo a chi non conosce i tempi, i modi e gli obiettivi della politica estera di Tel Aviv, che sull’asse con le petromonarchie sunnite (Emirati Arabi, Arabia Saudita e Bahrain) costruisce degli assi portanti del suo sviluppo. E non è un caso che il neoministro degli Esteri israeliano Eli Cohen sia già al lavoro per organizzare proprio negli Emirati Arabi Uniti la prima visita all’estero del sesto governo Netanyahu. “Bibi” voleva visitare il Paese già a fine 2021, ma la caduta del suo quinto governo ha reso Naftali Bennett il primo premier della storia a giungere ad Abu Dhabi. In quest’ottica, l’obiettivo appare il contenimento della presenza dell’Iran nella regione e il rafforzamento dei vincoli energetici, securitari e commerciali.
Le relazioni ufficiali tra Israele e gli Emirati Arabi Uniti sono state stabilite due anni fa ai sensi degli Accordi di Abramo. E ora sono un pivot che la divisa politica israeliana ha adottato in forma trasversale. I bilaterali sono costanti. “Nel giugno 2022, l’allora primo ministro Naftali Bennett è volato ad Abu Dhabi” per una seconda volta “per incontri sull’Iran” con le autorità emiratine, ricorda il Times of Israel, “e il ministro degli Esteri degli Emirati Arabi Uniti Al Nahyan ha visitato Israele a settembre per celebrare il secondo anniversario degli accordi di Abramo. Ha incontrato l’allora primo ministro Yair Lapid e Netanyahu. Anche il presidente Isaac Herzog ha visitato gli Emirati Arabi Uniti”.
Dopo le elezioni dell’1 novembre che avevano visto la vittoria del campo largo nazionalista centrato sulla destra del Likud e sui suoi alleati “c’erano state preoccupazioni che i legami tra Israele e la nazione del Golfo potessero essere influenzati dall’elezione del governo intransigente di Netanyahu“, ma così non sembrerebbe, almeno finora. Itamar Ben Gvir e Bezalel Smotrich, forti dei loro toni anti-islamici e anti-arabi, non hanno mai goduto delle simpatie dei Paesi del Golfo, ma Abu Dhabi e gli altri Stati della regione guardano al ruolo di Netanyahu come “pontiere”.
Nei primi giorni del governo nato il 29 dicembre gli Emirati Arabi Uniti hanno condannato “fortemente” la visita di Ben Gvir alla Spianata delle Moschee a Gerusalemme ma di fatto non hanno chiuso alla visita di Netanyahu. Troppo importante l’apertura di credito bilaterale e troppo cogente la sfida all’Iran per mettere in primo piano una causa, come quella palestinese, che oggi non ha più la valenza strategica di un tempo per le monarchie del Golfo.
Netanyahu si muoverà in continuità con Lapid e Bennett nel tentativo di separare al massimo politica interna e politica estera nell’approccio al mondo arabo. Troppo ghiotte le opportunità della relazione con gli Stati della regione per sacrificarle in nome di un nazionalismo fine a sé stesso che aiuta, però, a consolidare come questione puramente interna la faglia tra sionisti e arabi nello Stato Ebraico. Anzi, l’obiettivo è ottenere nuove adesioni agli Accordi di Abramo sul riconoscimento bilaterale e puntare alla triangolazione con gli Usa per contenere i rivali regionali delle potenze filoccidentali. Dopo Emirati, Bahrain, Marocco e Sudan, Netanyahu vuole puntare al più grande dei risultati: fare del suo governo nazionalista quello che riuscirà, in nome dell’inimicizia comune per Teheran, a conquistare il Santo Graal diplomatico del pieno riconoscimento bilaterale tra Tel Aviv e l’Arabia Saudita. Il 15 dicembre 2022 l’allora premier nominato ha promesso un “salto di qualità” nei rapporti con Riad.
Dal 2015 a oggi Netanyahu ha aumentato d’intensità i contatti con Riad, e la diplomazia delle spie e dei militari, informalmente, prosegue attiva da diversi anni soprattutto sul tema iraniano. Il commentatore di politica estera di Al Arabiya Tony Badran sul sito della nota emittente araba ha analizzato l’intervista concessa da Netanyahu prima dell’insediamento alla Tv con sede a Dubai ricordando che “Netanyahu ha presentato fermamente la possibilità di una normalizzazione diplomatica con l’Arabia Saudita”, che ha descritto come “il grande premio” di “una discussione bilaterale saudita-israeliana” attiva nei fatti da anni.
Tutto questo, ed è la grande novità, andando oltre i rapporti della nazione che controlla i luoghi santi dell’Islam con il broker maggiore degli Accordi di Abramo, gli Stati Uniti: Netanyahu ha sottolineato che “Israele ha agito e continuerà ad agire indipendentemente dagli Stati Uniti, specialmente quando sono in gioco questioni fondamentali della sicurezza del paese, come la minaccia posta dall’Iran a Israele e alla regione”. Una svolta sostanziale che potrebbe portare, dunque, il governo più anti-arabo sul fronte interno della storia di Israele a diventare il più filo-arabo nei fatti in chiave geopolitica. Tutto questo ha senso se letto nel quadro della contrapposizione geostrategica e della “guerra ombra” tra l’Iran e i suoi rivali che da anni anima il Medio Oriente e in cui sia Israele che le monarchie del Golfo sono pronte, pur di non soccombere, a quelli che solo pochi anni fa avrebbero considerato veri e propri “patti col Diavolo”, ma che ora appaiono scelte realistiche e strategiche.
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