La latitanza di Matteo Messina Denaro è costellata di mancati arresti ma soprattutto di una latitanza “alla luce del sole” fatta di selfie, whatsapp con altri pazienti e una carta d’identità intestata al figlio di un boss.
(A cura di Francesco Piccinini – fanpage.it) – Partiamo dalle certezze: l’arresto di Matteo Messina Denaro è una grande operazione investigativa. Nessuno può discuterlo. Sono stati messi insieme, con solerzia, pezzi di informazioni ottenuti grazie a intercettazioni, intuizioni e pedinamenti. Ma questa brillante vittoria non può celare un’altra domanda: cosa è cambiato? Perché solo ora? Se l’operazione che ha portato al fermo del più famoso latitante al mondo è una grande operazione di intelligence i mancati arresti del passato (di cui parlano tanti magistrati, in primis Teresa Principato, ma anche giornalisti come Marco Bova nel suo Libro “Latitante di Stato”) non possono essere dimenticati.
Se oggi Matteo Messina Denaro è stato arrestato è perché, da un anno e mezzo a questa parte, qualcosa è cambiato. Qualcosa è cambiato da quel giugno 2021, quando una segnalazione circostanziata indicava il boss a Campobello di Mazara. Una carta dimenticata in un cassetto che avrebbe permesso l’arresto del latitante più famoso al mondo già due estati fa. Solo oggi le forze dell’ordine si sono recate in massa in questo piccolo paesino dell’entroterra siciliano: scoprendo che il “covo” di Messina Denaro era proprio lì, nel paese indicato da quella segnalazione rimasta inascoltata. Lo stesso paese dove risiedeva il vero Andrea Bonafede, l’uomo da cui il superboss aveva preso documenti e identità.
Cosa è cambiato in questo anno e mezzo? Certamente sono cambiati gli equilibri politici che hanno garantito a Matteo Messina Denaro una lunga latitanza. Sono caduti i suoi referenti: l’arresto di MMD è la vera fine della Seconda Repubblica, iniziata con la strage di Capaci e conclusasi con l’arresto del suo ultimo mandante in libertà.
Matteo Messina Denaro aveva fatto del triangolo tra Selinunte, Campobello di Mazara e Tre Fontane il suo buen retiro. Amava i resort della zona, le donne e i videogiochi. Non comunicava da tempo con la sua famiglia, nemmeno con la figlia Lorenza. Aveva smesso con le videochiamate, troppo rischiose ma continuava a passare le ore davanti a una playstation collegata ad internet. La sua rete di protezione si era assottigliata. Lui che amava le belle auto era costretto a farsi scarrozzare da Giovanni Luppino, commerciante di olive.
Gli elementi che contrastano con il racconto di un uomo “invisibile” e “imprendibile”, sono tanti, troppi per non lasciare stupiti. In primis la carta d’identità di ottima fattura ma intestata al nipote di un boss, non proprio un Mario Rossi qualunque. In secundis, quell’olio e pane regalato a medici e pazienti pochi giorni prima dell’arresto, non proprio il gesto di chi vuole rimanere anonimo. Infine i selfie con i medici: troppa sfacciataggine per chi ha fatto dell’anonimato la sua cifra di vita.
Aveva addirittura dato il suo numero ad alcune pazienti con le quali condivideva la terapia e con le quali si scambiava dei messaggi.
Infine la struttura “La Maddalena”, centro d’eccellenza, unica struttura in Sicilia con un dipartimento di oncologia di terzo livello. Tutti sapevano che Messina Denaro era malato di tumore e per questo farsi curare proprio lì, vestito di tutto punto, con un orologio da 35mila euro sembra una disattenzione da “picciotti” alle prime armi piuttosto che da superlatitante. Una clinica assurta alle cronache già nel 2000 quando il figlio dell’allora primario di oculistica (Matteo Messina Denaro ha anche un problema agli occhi) fu condannato a 8 mesi per aver favorito la latitanza di un mafioso.
Il quadro clinico del boss sarebbe potuto essere un punto da cui partire per catturarlo anche prima della scoperta del tumore. Il cancro non è stata la sua prima patologia importante. Matteo Messina Denaro per curarsi si era dotato di un costosissimo apparecchio per la dialisi portatile, che raramente viene acquistato da un privato. Un’apparecchiatura medica fabbricata solo da pochissime (due o tre) ditte al mondo e per questo facile da tracciare.
Una dialisi per la quale MMD si è sempre avvalso del supporto di medici. Non ha mai imparato a essere autosufficiente nelle sue cure. Una pista importante, importantissima che partiva da due elementi di unicità: un macchinario, una malattia definita, un medico. Una pista rimasta a lungo carta morta, come la segnalazione di cui all’inizio. Ma non sono le sole…
Per questo la domanda: cosa è cambiato?
Sebbene Baiardo sia un pentito fuori dai giochi, le sue parole (registrate un mese prima della messa in onda) contengono elementi e fatti troppo specifici per essere derubricati. Le sue dichiarazioni (e il successivo arresto di MMD) sigillano per sempre le porte del carcere per i fratelli Graviano (nonostante i possibili sconti di pena per le mezze confessioni in cui hanno tirato in mezzo Berlusconi e Dell’Utri). Le dichiarazioni di Baiardo chiudono anche a qualsiasi dibattito sull’ergastolo ostativo. Modificarlo vorrebbe dire confermare la bontà della sua tesi. Ci sarebbe poi da chiedersi chi l’ha informato sulle condizioni di Matteo Messina Denaro? Se il superlatitante era così imprendibile come fa un uomo residente al nord Italia, da tempo fuori dal giro, a conoscere le sue condizioni di salute?
Ciò che sappiamo per certo è che l’epopea di Matteo Messina Denaro si è conclusa ma a tante domande non avremo mai una risposta. Non avremo mai una riposta sul contenuto dei “diari di Riina”. Una fonte, alla fine degli anni 2000, parlò a chi scrive di questi documenti sottratti dal covo mai perquisito e finiti nella disponibilità di Matteo Messina Denaro. A confermarlo, nel novembre 2019, in un processo è stato Giovanni Brusca. I diari non sono stati ritrovati nel “covo” di Matteo Messina Denaro a Campobello di Mazara: dove sono?
E poi la trattativa sui quadri. Sempre Giovanni Brusca rivela con dovizia di particolari che Paolo Bellini (agente dei servizi segreti recentemente condannato per la strage di Bologna), in una riunione in cui lui, Antonino Gioé (morto suicida in carcere) e Matteo Messina Denaro propose uno scambio: il ritrovamento di alcune opere d’arte (tra cui il famoso Caravaggio rubato a Messina) in cambio di sconti di pena e arresti domiciliari. Brusca stilò un primo “papello” contenente le richieste: revisione del 41bis, revisione del maxiprocesso, domiciliari per alcuni membri di cosa nostra (tra cui il padre). Bellini, dopo qualche tempo, tornò dicendo che l’unica cosa che poteva concedere erano i domiciliari al padre di Giovanni Brusca e quest’ultimo rifiutò l’offerta perché un eventuale accordo sarebbe stata visto dagli altri membri della cupola, come un anteporre gli interessi personali a quelli dell’organizzazione. Ma qualcuno invece decise di farsi la propria trattativa: Matteo Messina Denaro. Il giovane boss fece ritrovare due quadri rubati. Ad affermarlo, nel 2018, è lo stesso Brusca. Ma anche questa pista è rimasta non battuta.
Cosa ha avuto in cambio MMD? C’entra con la sua lunga latitanza?
Forse, anzi sicuramente, c’entrano i suoi legami con la massoneria, con i politici locali e non. C’entra anche l’importanza del suo mandamento, quello di Castelvetrano al cui interno c’era una base Gladio. Un mandamento che ha conosciuto uno dei primi misteri di stato: la strage dei carabinieri ad Alcamo Marina. Un depistaggio che ha visto condannati degli innocenti e di cui, solo in questi giorni, si sono iniziati a cercare i veri mandanti.
La storia di Matteo Messina Denaro è legata a doppio filo con la parte peggiore della storia del nostro paese. Applaudiamo chi lo ha arrestato, ma non possiamo dimenticarci di chi per 30 anni ne ha garantito la latitanza (neanche così tanto nascosta).