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Alcatraz, 60 anni dalla chiusura dell'isola-carcere

Dalla baia di San Francisco, groviglio di correnti mortali dove si incontrano e scontrano i fiumi della California e le fredde acque del Pacifico, si può scorgere, oltre la nebbia leggera, una luce distante. Segnala a chi è di passaggio la posizione di una piccola isola di pietra arenaria che ancora oggi custodisce la memoria di quello che è stato il carcere di massima sicurezza più famoso del mondo: l’istituto penitenziario di Alcatraz, che oggi conta 60 anni dalla chiusura dei battenti.

Quel nome spigoloso, Alcatraz, quasi ostile, duro come la vita di chi ne è stato ospite dai tempi della guerra di Secessione americana – quando hanno iniziato a soprannominarlo semplicemente The Rock, la roccia – si deve, secondo alcuni, al cartografo spagnolo Juan Manuel Diaz. Fu il primo ad usarlo quando segnò su una carta della baia il profilo dell’Isla de los Alcatraces, i pellicani bruni che vi nidificavano un tempo, prima che la dinamite ne spianasse i rilievi rendendola adeguata all’istallazione di una fortificazione militare a metà del XVIII secolo. Secondo altri, sarebbe stato un capitano della Reale marina britannica, un tale Frederick Beechey, a renderlo noto dopo un’ispezione della baia ancora sotto il controllo delle autorità messicane, nel 1825. Fatto sta che tutti nel mondo conoscono l’isola di Alcatraz, prigione inespugnabile nell’immaginario collettivo.

Da avamposto strategico a confino per traditori

Acquistata dal governatore della California John C. Fremont senza formale consenso dal Governo Federale – che reputava già di sua proprietà un’isola che perciò non aveva nessuna ragione d’esser pagata – quella roccia avvolta dall’acqua mai calda accolse come prima struttura un faro, utile a segnalare la presenza di un ostacolo alla navigazione, per poi diventare fortificazione militare in posizione strategica per la difesa “triangolare” dell’intera baia che, nel caso in cui dei vascelli avversari fossero riusciti a violare il Golden Gate, doveva consentire ad una batteria di cannoni di bersagliarli con una potenza di fuoco addizionale: posta nel mezzo rispetto alle fortezze costiere che torreggiavano all’imbocco della baia.

Fu solo in seguito allo scoppio della Guerra di Secessione americana che The Rock iniziò a prestarsi a luogo di detenzione per prigionieri di guerra dell’Esercito confederato e per coloro che erano stati marchiati dal crimine del tradimento. Uomini da tenere confinati in un luogo da cui era impossibile evadere.

Dal 1907 l’isola di Alcatraz venne adibita ufficialmente a carcere militare. Fu così convertita parte della vecchia “cittadella” militare – che originariamente accoglieva i prigionieri nelle cantine – nella struttura carceraria che ancora oggi si scorge dai moli di San Francisco. In seguito ad un allargamento che le permise di accogliere oltre 300 prigionieri, la Western U.S. Military Prison – ossia la prigione militare dell’Ovest degli Stati Uniti – diventò il penitenziario federale dove trasferire i detenuti più problematici d’America, privandoli d’ogni possibilità di fuggire tra limiti strutturali e geografici. Tra questi il più noto sarà Alphonse “Al” Capone, il più famoso gangster della storia, ma vengono annoverati tra le personalità d’eccezione criminali con soprannomi da cinema come il rapinatore “Machine gun” Kelly Barnes e Alvin “Creepy” Karpis, nemico pubblico n°1 dell’FBI prima di essere catturato e accompagnato personalmente da J. Edgar Hoover ad Alcatraz nel 1936.

Alcatraz, tra fuggitivi e conti da pagare

Nei 29 anni in cui Alcatraz, isola del diavolo d’America e scoglio di redenzione per criminali complicati, ospitò la prigione federale, furono 1.576 detenuti che trascorsero anni e anni in attesa di riottenere la libertà perduta. Un “soggiorno” senza poter comunicare tra loro né poter parlare con chi gli faceva visita – solo una volta al mese – di ciò che accadeva nel “mondo esterno”. A quanto si dice, pare che “non sapessero nemmeno che si stesse combattendo la Seconda guerra mondiale”.

Sebbene fuggire da Alcatraz fosse considerato impossibile, i tentativi di evasione non mancarono. I secondini ne registrarono quattordici, che coinvolsero un totale di 36 prigionieri. Il primo risale al 27 aprile 1936, quando uno detenuto tentò di fuggire scavalcando una recinzione e venne freddato dalle guardie per non essersi fermato agli avvertimenti. Il secondo tentativo di evasione, registrato il 16 dicembre 1973, viene considerato come il primo presunto tentativo riuscito. Due detenuti, Theodore Cole e Raph Roe, impiegando degli pneumatici come galleggianti di una zattera improvvisata, lasciarono l’isola senza mai fare ritorno. I loro corpi non vennero mai ritrovati e considerati “dispersi e probabilmente annegati” come furono considerati anni dopo anche Frank Morris e i due fratelli Anglin: celebri protagonisti dell’evasione registrata l’11 giugno del 1962 che ispirerà il film cult “Fuga da Alcatraz”. Gli altri tentativi di evasione si conclusero con cinque detenuti uccisi, due annegati e ventitré catturati.

La particolare locazione del penitenziario, un tempo considerata strategica e vantaggiosamente isolata, finì per rendere eccessivamente oneroso il mantenimento dei detenuti nel carcere che Mark Twain descriveva come  “freddo come l’inverno, anche nei mesi estivi”. Inviare acqua, viveri e altri generi di prima necessità sull’isola non era vantaggioso per casse dello Stato che ormai poteva ovviare a quei costosi limiti geografici con nuove strutture più sorvegliate. Per tali ragioni, il 21 marzo del 1963 il procuratore general Robert Kennedy ordinò la chiusura del carcere di Alcatraz al Bureau of Prisons con grande dispiacere del capo dell’FBI J. Edgar Hoover, acerrimo nemico della famiglia Kennedy. 

Da quel giorno Alcatraz rimase abbandonata e tornò ad essere uno scoglio silenzioso, sferzato dal vento freddo. Lo calpestano solo i gabbiani e i cormorani che passeggiano sui loro piedi palmati, tra il cemento armato e la ruggine che si accumula sulle sbarre che per tanto tempo hanno tenuto gli uomini fuori dal mondo, e adesso tengono il mondo al di fuori.

L’Occupazione di Alcatraz

Il 20 novembre 1969 l’isola venne occupata da settantotto nativi americani, per la maggior parte studenti di origine indiana della UCLA, che si stabilirono nel penitenziario abbandonato come atto dimostrativo incitato da Richard Oakes, attivista nativo che intendeva rivendicare l’isola un tempo riserva di caccia e pesca degli indiani Moqui Hopi. La rivendicazione si basava sul Trattato di Fort Laramie del 1868, che prevedeva la restituzione di territori federali in disuso agli Indiani d’America. Altri tentativi di occupazioni dimostrativa erano stati registrati il 9 marzo 1964 e il 9 novembre 1969.

Il desiderio e obiettivo finale dell’occupazione, che aveva chiamato a raccolta rappresentanze di cinquanta tribù ancestrali dell’America continentale, era trasformare l’isola in un centro per gli studi sui nativi americani e l’ecologia. Ma nel costo dei diciotto mesi di occupazione, la perdita di una leadership e una serie di incidenti – compreso un incendio che danneggiò il faro di segnalazione e l’abitazione del guardiano preposto alla sua funzione – portò allo sgombero. Su ordine dell’amministrazione Nixon, le forze speciali della polizia di San Francisco, coadiuvate da alcuni U.S. Marshall e da agenti dell’FBI, portarono via di forza gli ultimi manifestanti il 10 giugno del 1971. 

Uno scrigno del passato per visitatori moderni

Oggi, tra i freddi blocchi di celle allineate, dove un tempo risuonavano i passi pesanti delle guardie e i rintocchi dei loro vecchi manganelli sulle sbarre che trattenevano gli inquieti ospiti del governo Federale, passeggiano le scarpe da ginnastica dei turisti che possono respirare l’aria umida e drammatica di quegli spazi angusti e ormai vuoti, che sanno ancora far correre i brividi sulla pelle di vuole conoscere la vera storia di Alcatraz. Affascinante e leggendario confino di violenti, fuggiaschi e gangster di tempi che sembrano appartenere quasi a un’altra era geologica.

Dal 1973 l’isola e ciò che resta del penitenziario federale che l’ha resa leggenda sono aperti al pubblico, e attirano visitatori da tutto il mondo ma anche gli abitanti della baia di San Francisco. Loro che da sempre hanno guardato con sinistra fascinazione a The Rock e ai suoi misteri, finalmente hanno potuto vedere con i loro occhi quel che ne resta. Il resoconto di un inviato del New York Times, primo tra i primi a sbarcare sull’isola dei pellicani e dei detenuti più isolati d’America, narra di curiosi che nella brezza del mattino si aggiravano nel silenzio “vuoto e desolato, rotto solo dalle voci sommesse” di chi non avrebbe mai perso occasione di visitare la più famosa prigione del mondo. Descrivendolo come uno dei luoghi “più opprimenti e  claustrofobici” che avesse mai visto. Al tempo già si vendevano al prezzo di pochi dollari t-shirt con su scritto “Alcatraz Swim Team” o “Vacationing at Alcatraz”. Per qualcuno paccottiglia irrispettosa del dramma morale che si è consumato in quegli spazi ancora spettrali. Per qualcun altro un semplice modo di far sbarcare il lunario ai negozianti di souvenir, per divertire i turisti stranieri che arrivano con la pelle arrossata dal sole e la macchina fotografica pronta a immortalare l’architettura carceraria che racchiude nella sue evidente decadenza un’inspiegabile e algida bellezza. 

Esseri liberi che rimangono assorti di fronte alle rocce grigie, culmine di inaccessibili dirupi. Mentre i gabbiani si librano nel vento, alcuni cercano di misurare a occhio la distanza che li divide dalla costa, immaginandosi pronti ad evadere dalla vecchia fortezza divenuta prigione, come fossero protagonisti di nuove trame che traggono e ritraggono spunto dal Conte di Montecristo, da Papillon e da Escape from Alcatraz appunto. E quando le navi di passaggio segnalano il loro transito con fischi e sirene, e il vento fischia tra le mura scrostate, e i gabbiani si posano, magari si domandano: chissà se è vero che ce l’hanno fatta quei brutti ceffi di Morris e dei fratelli Anglin? Se davvero hanno raggiunto il Brasile come dicono, sulle ali della libertà. O se invece è solo una leggenda.

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