La cucina popolare non è mai stata scritta ma è certo che è stata tramandata di generazione in generazione. Servendomi di alcune letture, ricordo “The eaters and the eaten”, ho avuto modo di constatare, ma in fondo già lo sapevo, che le abitudini alimentari contadine hanno meno tradizione di quelle della classe borghese. I primi mangiano per mangiare, quasi in un moto centripeto, e preferiscono il pasto diurno; i secondi mangiano per cultura, per spettacolo e, come in un rito celtico, preferiscono la sera, e non sono mai veramente sazi, ma fa parte del gioco.
Oggi la rivalutazione del cibo povero e del suo consumo, che sia diurno o serale, ha capovolto completamente questo pensiero: zuppe e minestre, coratella, trippa, frattaglie, e pane, per molti cuochi elemento fondamentale e di partenza della loro sperimentazione, sono protagonisti di una cucina di ricerca.
Ma la distinzione non è nata negli anni settanta del novecento, ma già più di duemila anni fa.
Ad esempio, i legumi davano il proprio nome ad illustri famiglie romane come i Pisoni (piselli), i Lentulo (lenticchie), i Fabia (fava), o al primo comunicatore della storia, Cicerone (da cicero, ossia cecio). L’unico legume a non essere ritenuto prelibato perché lo si trovava in abbondanza era il fagiolo, che Virgilio chiamava “vilem phaseulum” e che significa letteralmente “fagiolo a buon mercato”.
Dunque, non era un alimento elitario, poteva essere consumato abitualmente, ma dava forza e nutrimento, con le sue svariate proprietà, alla plebe romana, schiacciata dai soprusi delle famiglie Patrizie.
Nel Medioevo quasi tutto il popolo consumava pietanze a base di fagioli. Fece il suo ingresso anche nei conventi e veniva coltivato nella terra destinata alla produzione di ortaggi e frutta, non distante dall’orto dei semplici destinato alle piante medicinali.
Minestre con verdure e pane, cucinate insieme, o zuppe in “purezza”, come nella scena dipinta da Annibale Carracci in cui un uomo, probabilmente un contadino con un grande cappello di paglia, è seduto al tavolo e sta’ mangiando. L’immagine lo coglie nel momento in cui solleva il cucchiaio, pieno di fagioli. È uno dei suoi capolavori, il “Mangiafagioli”.
Qualche tempo dopo è diventato uno degli alimenti più amati e con le sue variazioni regionali, specialmente con la pasta, e con le cozze alla napoletana maniera, è tra i piatti più conosciuti, identitari ed apprezzati al mondo.
LA RICETTA
Ingredienti:
• 70 gr pasta corta rigata
(da provare anche integrale)
• 100 gr fagioli cannellini o borlotti
(se freschi 200 gr)
• 2 spicchi d’aglio
• 5 gr rosmarino
• 20 gr conserva di pomodoro
• 10 gr di olio extravergine d’oliva
• 1 mazzetto di salvia
• 1 gr di sale
• Peperoncino quanto basta
Procedimento:
Lessare i fagioli (se usate quelli secchi lasciateli in ammollo in acqua per una notte) in un litro e mezzo di acqua
fredda salata. Aggiungere uno spicchio di aglio, un po’ di salvia e un po’ di rosmarino. Quando sono ben cotti, togliete il rosmarino e frullate una parte di fagioli con il frullatore a immersione direttamente in pentola. Così la pasta sarà più cremosa. Una volta ripreso il bollore, aggiungere la pasta e cuocerla direttamente nella
pentola. Servire aggiungendo un pizzico di peperoncino se piace e un giro di olio extravergine d’oliva crudo