Che fine ha fatto la Belt and Road Initiative (BRI)? Il maxi progetto infrastrutturale lanciato dalla Cina nel 2013 è ancora work in progress. Se ne parla meno rispetto al passato. Gli accordi firmati tra le grandi aziende statali cinesi e i vari governi che hanno scelto di aderire all’iniziativa non trovano più spazio sui media internazionali. Alcune intese sono saltate, altre procedono a rilento. Eppure, fanno sapere da Pechino, la BRI è ancora viva e vegeta.
Dopo aver speso mille miliardi di dollari per espandere la propria influenza in Asia, Africa e America Latina, il Dragone ha pensato bene di rivedere il suo piano iniziale. Il rallentamento dell’economia globale, combinato con l’aumento dei tassi di interesse e l’aumento dell’inflazione, ha spinto all’angolo molti Paesi che dovevano ripagare i propri debiti con la Cina.
La pandemia di Covid-19 ha raffreddato ulteriormente gli entusiasmi, mentre la stessa Via della Seta è stata sostituita da altre parole chiave nei discorsi del presidente Xi Jinping.
Non è un caso che, come ha scritto il Wall Street Journal, i responsabili politici cinesi stiano discutendo internamente in merito ad un programma più conservatore, una sorta di “Belt and Road 2.0“, che valuterebbe in modo più rigoroso nuovi progetti di finanziamento.
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Il caso dell’Uganda
Nel frattempo, però, ci sono alcuni nodi spinosi che la Cina dovrà cercare di sciogliere al più presto. Il South China Morning Post, ad esempio, ha acceso i riflettori sul rallentamento dei prestiti cinesi per i progetti della BRI. Il cambio di passo di Pechino ha messo in dubbio il futuro di un progetto ferroviario strategico dell’Africa Orientale, che dovrebbe collegare il porto keniota di Mombasa con l’Uganda, il Ruanda e il Sud Sudan.
L’Uganda, in particolare, dopo otto anni di ritardo nei finanziamenti cinesi, ha annullato il suo accordo dal valore di 2,3 miliardi di dollari con la China Harbor Engineering Company per costruire una linea ferroviaria di 273 km (170 miglia) dalla capitale Kampala alla città di confine con il Kenya di Malaba.
Il coordinatore del progetto dell’Uganda, Perez Wamburu, ha spiegato che il suo Paese ha firmato un memorandum d’intesa con la società turca di costruzioni ferroviarie Yapi Merkezi e che utilizzerà prestiti sindacati da agenzie di credito all’esportazione per finanziare il progetto. E così, mentre la Export-Import Bank of China non ha ancora risposto all’ultima richiesta di finanziamento dell’Uganda, le autorità ugandesi si sono mosse cercando e trovando un sostituto della Cina.
Dubbi, ritardi e incertezze
L’Uganda, tra l’altro, starebbe anche prendendo in considerazione l’idea di percorrere un percorso alternativo verso la costa attraverso il suo vicino meridionale, la Tanzania, dove Yapi Merkezi sta già costruendo ferrovie, in una mossa che potrebbe trasformare la sezione keniota della Standard Gauge Railway (Sgr) in un “elefante bianco”.
Ricordiamo che Kenya, Uganda, Rwanda e Sud Sudan si erano accordati, circa un decennio fa, per costruire una Sgr ad alta velocità per trasportare merci e passeggeri tra Mombasa e la capitale sud sudanese Juba, via Malaba, Kampala e Kigali. Il Kenya ha ricevuto 5 miliardi di dollari dalla China Exim Bank per costruire la prima fase della ferrovia, da Mombasa a Naivasha nella Central Rift Valley, in un progetto completato nel 2017. Ma i piani per estendere la linea fino a Malaba, al confine con l’Uganda, sono falliti. Nel 2018, Pechino aveva tuttavia espresso riserve sulla fattibilità finanziaria dell’estensione e ha chiesto un nuovo studio di fattibilità prima di concedere finanziamenti.
Dal canto suo, il portavoce del Ministero degli Esteri cinese, Wang Wenbin, ha affermato che Cina e Uganda “hanno una partnership cooperativa globale e la cooperazione pratica tra i due Paesi è un passo avanti per la cooperazione Cina-Africa”.
Intanto, in Asia, nel primo anniversario dell’apertura della ferrovia laotiana-cinese, lo scorso 3 dicembre l’agenzia di stampa statale cinese Xinhua ha pubblicizzato il progetto definendolo un grande successo per la BRI. La linea di 1.035 chilometri che collega Kunming, nella provincia cinese dello Yunnan, e la capitale laotiana Vientiane, è stata pagata quasi tutta dalla Cina. Il Dragone ha coperto il 70% del costo di costruzione di circa 6 miliardi di dollari, mentre il Laos ha contratto prestiti per saldare la spesa rimanente.
È vero che il gigante asiatico ha fornito tecnologia e attrezzature, compresi vagoni ferroviari e sistemi di segnalamento, insieme a competenze operative, ma, ha fatto notare Asian Nikkei Review, il Laos deve ancora stanziare 1,8 miliardi di dollari per il progetto. Si tratta di un importo pari al 10% del suo prodotto interno lordo per il 2021. Il debito estero laotiano, che ammontava a 14,5 miliardi di dollari alla fine del 2021, probabilmente ha già superato il Pil. Senza considerare che, a causa della pandemia, l’intera linea ha fin qui funzionato a singhiozzo.
In Pakistan, invece, tiene banco il destino della città portuale di Gwadar, dove dovrebbe sorgere il porto chiave di Gwadar a completamento del Corridoio economico Cina-Pakistan (CPEC), un affare per il valore di 50 miliardi di dollari. Tra violenti disordini, proteste e coprifuoco, l’intera zona è attraversata da molteplici tumulti. In un simile contesto i progetti cinesi sono avvolti nell’incertezza.
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