Roma, 20 mar – Arrivano le indicazioni dell’Accademia della Crusca sul linguaggio di genere: niente schwa o asterischi, ma via libera ai nomi professionali declinati al femminile.

Il quesito del Comitato Pari opportunità

Il tutto era partito da un quesito sulla scrittura rispettosa negli atti giudiziari che il Comitato Pari opportunità del Consiglio direttivo della Corte di Cassazione aveva rivolto alla Crusca. Mettendo un po’ le mani avanti, quest’ultima precisa che se la questione “interessa tutti i parlanti”, d’altra parte “va tenuta distinta la libertà della lingua comune nel suo impiego individuale, nella varietà degli stili e delle opinioni, dall’uso formalizzato da parte di organismi pubblici”. Prima di entrare nel concreto delle indicazioni pratiche, la Crusca analizza lo stato dell’arte sul tema. Il punto di partenza è il modello proposto da Alma Sabatini di fini anni ’80, che proveniva da una cultura femminista e che “faceva riferimento in maniera esclusiva al rapporto tra donne e linguaggio”. Oggigiorno si è però ampliato il campo di intervento con le rivendicazioni di chi “nega la tradizionale sistemazione binaria dei generi”. La Crusca invita a non sopravvalutare le tendenza alle “correzioni delle presunte storture della lingua tradizionale”, perché “frutto di una radicalizzazione legata a mode culturali”, citando come esempio negativo la “cultura della cancellazione”.

Le indicazioni della Crusca

Dopo questa premessa, l’Accademia della Crusca passa a elencare alcune indicazione pratiche. La prima è quella di “evitare le reduplicazioni retoriche” in nome di un principio di concisione. Niente “lavoratori e lavoratrici”, “cittadini e cittadine”, “impiegati e impiegate” o simili, ma vengono consigliate forme generiche come “persona” al posto di “uomo”, “personale” al posto di “dipendenti”, e così via. Qualora ciò non sia possibile, si può ricorrere al maschile anche se preferibilmente al plurale. Successivamente la Crusca si esprime sull’uso dell’articolo determinativo davanti ai nomi propri femminili, considerandolo un errore (come peraltro per i nomi maschili) pur ritenendo “scarsamente fondata” l’opinione che il suo uso sia “discriminatorio e offensivo”.

No alla schwa

Nettissima la contrarietà ai “segni eterodossi”, come lo schwa o l’asterisco, in quanto è da escludere “l’uso di segni grafici che non abbiano una corrispondenza nel parlato, introdotti artificiosamente per decisione minoritaria di singoli gruppi”. Anche se la Crusca concede che questi ultimi possano essere “ben intenzionati”. Pertanto deve essere mantenuto il maschile plurale non marcato, il quale rimane “lo strumento migliore per cui si sentano rappresentati tutti i generi e gli orientamenti”. Questo deve essere utilizzato in riferimento a cariche o funzioni, come possono essere “presidente”, “ministro2, ecc, nel caso in cui ci si riferisca ad esse in astratto o comunque “non siano connesse al nome di chi le ricopre”; oppure per estensione come nel caso di frasi come “Tutti pronti?”, “Siete arrivati tutti?”, o “Sono tutti sani e salvi!”, aggiungendo come in questi casi la reduplicazione avrebbe “effetti comici e inappropriati”.

Infine, il tasto dolente. L’Accademia della Crusca invita all’uso “senza esitazioni” ai nomi di cariche e professioni declinate al femminile. Insomma, via libera a cacofonie varie come “Pubblica Ministera”, “pretora”, “questora”, “consigliera”, e così via. Con però alcune eccezioni, ad esempio per nomi come “presidente”, “giudice”, “docente”, ovvero i nomi “terminanti in -e non suffissati”, essendo ambigenere affidano l’indicazione di genere all’articolo. Mentre i nomi grammaticalmente femminili ma validi anche per il maschile, come “guardia giurata”, “spia”, “sentinella”, devono essere mantenuti inalterati, coma viceversa quelli grammaticalmente maschili ma valide anche per il femminile, come “soprano” o “membro”.

Michele Iozzino

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