il-mito-dell’austerita-e-fascista-e-capitalista

Il mito dell’austerità è fascista e capitalista

La campagna ideologica scatenata dal governo di destra contro il Reddito di cittadinanza e contro le “eccessive” tutele dei lavoratori dipendenti, vanta ascendenti storici illustri: compie un secolo la teoria dell’austerità, forgiata in totale […]

(DI GAD LERNER – Il Fatto Quotidiano) – La campagna ideologica scatenata dal governo di destra contro il Reddito di cittadinanza e contro le “eccessive” tutele dei lavoratori dipendenti, vanta ascendenti storici illustri: compie un secolo la teoria dell’austerità, forgiata in totale sintonia da politici ed economisti britannici e italiani per sostenere che l’imprenditore e il risparmiatore sarebbero il nucleo vitale della società, e dunque chi per suo demerito vive solo del proprio lavoro debba sottomettersi al “sacro imperativo dell’austerità” per non essere considerato un vizioso. Esagero? Leggete cosa sosteneva nel 1920 il cancelliere Austen Chamberlain: “Ci sono 45 milioni di sterline destinati ai sussidi per il pane. Niente mi darebbe più soddisfazione che abolirli”. Vi ricorda qualcuno? Due anni dopo, il principale teorico del fascismo di destra, Maffeo Pantaleoni, rincarava la dose: “Le classi che hanno redditi minori sono notevolmente deficienti per qualità in confronto delle altre, in modo che questa deficienza è causa del minor reddito e non già il minor reddito causa della deficienza”. A rincarare la dose, il liberale Luigi Einaudi sosteneva: “È ben noto che i salari degli operai sono notevolmente aumentati… ne fanno prova gli aumenti cospicui nei consumi di bevande alcoliche, di dolci, cioccolata, biscotti”. Un antesignano della polemica contro i divanisti. Non c’è da stupirsi se gli Usa e il Regno Unito tra il 1925 e il 1928, nonostante il delitto Matteotti e il varo delle “leggi fascistissime”, moltiplicarono i loro investimenti in obbligazioni italiane, a sostegno del regime di Mussolini. Il suo ministro delle Finanze, Alberto De’ Stefani, definito dal Times come la versione italiana di un “accademico di Oxford”, subito dopo la marcia su Roma aveva proclamato: “La politica di persecuzione del capitale è stata di colpo arrestata per opera nostra!”. Tiravano un sospiro di sollievo gli economisti liberali. Dopo il “biennio rosso” delle lotte operaie, imponendo austerità e disciplina, l’economia di mercato veniva sottratta al rischio di collasso incombente.

Dobbiamo a una giovane studiosa italiana, Clara E. Mattei, la minuziosa ricostruzione storica delle circostanze in cui s’impose una teoria dell’austerità, intesa come primato dei dogmi dell’economia sulla sfera politica, che ancora oggi va per la maggiore. Lo ha fatto in un libro pubblicato negli Stati Uniti, dove insegna, e tradotto da Einaudi col titolo Operazione austerità. Come gli economisti hanno aperto la strada al fascismo. A partire dalle scelte compiute un secolo fa, con la pretesa di “depoliticizzare la sfera dell’economia”, Mattei traccia un bilancio impietoso, esteso fino ai giorni nostri, di quella che Luciano Gallino chiamava “la mistica dell’austerità”. Fallimentare nel conseguimento degli obiettivi che si prefiggeva – riduzione del debito pubblico, crescita economica – è diventata “una costante del capitalismo moderno” e si è dimostrata brutalmente efficace nel proteggere le sue gerarchie. Ne sono eredi anche i “vincoli di sorveglianza multilaterale” che subordinano i prestiti condizionati del Fmi all’applicazione di politiche di austerità fiscale, monetaria e industriale. Col risultato di salvaguardare il sistema delle imprese capitalistiche a costo di peggiorare le condizioni di vita dei lavoratori, imporre una tassazione regressiva a loro svantaggio e tagliare il welfare. Misurate sul lungo periodo, le cifre parlano chiaro, in Italia come nel Regno Unito e negli Usa. Sia nell’uscita dalla crisi del primo dopoguerra, sia col ritorno in auge della tecnocrazia a partire dagli anni Ottanta, si registra un massiccio dirottamento di ricchezza nazionale dai salari ai profitti, nel mentre crolla ovunque il tasso di sindacalizzazione dei lavoratori. Ancora oggi i teorici dell’austerità usano presentarsi come severi censori dei difetti delle classi subalterne, troppo bene abituate ad accomodarsi in un benessere improduttivo. Mattei evidenzia una certa tendenza di costoro all’autoincensamento, e non esita a far nomi: sulla scia di Luigi Einaudi prende di mira in particolare i “Bocconi boys”. Se la sua ricerca spiega bene le radici culturali della repentina adesione della destra di governo ai dettati dell’austerità, evita invece di misurarsi con un altro passaggio non scontato: la teoria dell’austerità fatta propria dalla sinistra comunista di Berlinguer e Amendola, quando essi immaginavano che facendo sacrifici per debellare l’inflazione i lavoratori si sarebbero trasformati in classe dirigente della nazione. Andò diversamente. L’austerità rimane un pilastro del sistema capitalistico. Tanto più oggi che, da più parti nel mondo, in nome del buon funzionamento dell’economia, si manifesta la tendenza a considerare la democrazia un impiccio.

Ps. Onore alla casa editrice Giulio Einaudi che pubblica un bel libro in cui leggiamo un ritratto severo del padre del suo fondatore.

Related Posts

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *