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Nelle catacombe di Bakhmut: la Stalingrado ucraina

Bakhmut (Ucraina). Il vecchio senza un occhio e con il colbacco sembra uscito da un film sulla Seconda guerra mondiale. Il centro di Bakhmut, la Stalingrado ucraina, è una poltiglia di palazzi sventrati su un tappeto di schegge e detriti sparpagliati lungo le strade. I russi, 200 metri più in là, vomitano da oltre il fiume cannonate sulla città cercando di stanare gli invisibili difensori. Non facciamo in tempo a trovare un riparo per la macchina che spunta il fantasma. «Avete una sigaretta?», biascica lo spettro della guerra. L’anziano trascina uno slittino con sopra due cassette di munizioni, con le sue cose, alla ricerca di acqua, cibo e sigarette. Sembra incurante dei sibili dei colpi di artiglieria e forse pensa che siamo della Croce rossa, ma in quest’incubo si infilano solo i soldati, i giornalisti e pochi volontari che cercano di aiutare i civili.

Per raggiungere Bakhmut con Francesco Semprini, della Stampa, è rimasta aperta una sola strada, ma sotto il tiro dei russi che parte da Kostiantynivka. All’ultimo posto di blocco di Chasiv Yar, i soldati ritirano il pass speciale come se il capolinea fosse l’inferno e non dovessi più tornare indietro. Poi inizia l’incubo con i primi colpi di artiglieria russa che danno la caccia alle batterie ucraine. Quando da una collinetta appare Bakhmut, un tempo città con 70mila abitanti ridotti a 5mila, un brivido corre lungo la schiena. Gli ultimi due chilometri sono in campo scoperto con i russi che fanno il tiro al piccione. L’unica possibilità è lanciarsi a tavoletta verso la città «fortezza» che resiste da mesi ad ondate di attacchi. Le casematte ai crocevia, però, sono abbandonate e in alcune strade rimangono solo i cavalli di frisia con gli sbarramenti di cemento. I soldati sono rintanati negli scantinati dei palazzi per evitare le bombe. Ogni tanto si vede qualche blindato messo al riparo di un edificio o sotto un cavalcavia e i cecchini con l’uniforme bianca per mimetizzarsi in mezzo alla neve.

La città è morta, deserta e avvolta da un silenzio surreale spezzato solo dai colpi in uscita degli ucraini e dal sibilo delle granate che arrivano dall’altra parte del fiume. I cavi dell’elettricità penzolano in mezzo alla strada, ma è la piazza centrale con il municipio, un tempo pulsante di vita, la tragica fotografia della Stalingrado ucraina. Macerie, desolazione e palazzi centrati dalle bombe fanno capire la furia degli attacchi russi e la strenua resistenza degli ucraini.

Il benvenuto è un potente colpo di artiglieria che ci passa sopra la testa e va a schiantarsi nel centro. L’unica possibilità di rimanere vivi è correre cercando di rimanere sempre rasenti ai muri sbrecciati delle abitazioni. Dietro la piazza principale un manipolo di disgraziati non molla le sue case. Un paio di anziane babushke uscite un attimo dal bunker a godere di un raggio di sole assieme a una giovane donna con un gatto in spalla e Vlad, il portavoce di 23 anni dei sopravvissuti. Quando ci vedono arrivare trafelati con i bottiglioni d’acqua potabile che vale come l’oro non credono ai loro occhi e si sprecano in spasiba, spasiba, grazie in russo. Una ripida scala porta al rifugio fai-da-te ricavato sottoterra. Un dedalo che collega gli scantinati di due palazzi trasformati in catacombe moderne per salvarsi dalle bombe. Un uomo sega la legna per la stufetta che riscalda un ambiente angusto dove hanno piazzato dei letti d fortuna. «Viviamo in questo condizioni dallo scorso agosto – spiega Vlad, barbone biondo – Vogliamo solo mir, la pace». Sull’intensità dei bombardamenti sorride: «Quanti colpi cadono al giorno? Forse dovete chiedere quando non arrivano. Spesso piombano ogni minuto». Il pugno di civili è tagliato fuori dal mondo. «Avete delle candele? – chiede uno dei sopravvissuti – Non c’è elettricità da mesi e per caricare le batterie del telefonino e avere un po’ di luce usiamo un vecchio sistema». Una manovella, che fanno vedere all’opera, ma ci vuole almeno mezz’ora e olio di gomito.

Come mettiamo il naso fuori, parte un concerto di morte ancora più intenso con i razzi Grad, eredi degli organi di Stalin. La tattica è attendere un attimo di calma e riprendere a correre, ma non facciamo in tempo ad arrivare a un blindato Bradley con la croce rossa che i sibili mortali ricominciano a fendere l’aria. Per fortuna le granate esplodono, con un boato d’inferno, oltre la prima fila di palazzi che fa da scudo. I due militari asserragliati in un negozio ci guardano stupefatti e ordinano subito: «Niente foto o video, che servono al nemico per individuare la posizione e colpirci». L’ufficiale è nervoso come il soldato. «Siete dei pazzi. I russi sono a 200 metri oltre il fiume e se lo passano è finita. Vi conviene andarvene prima di rimanere intrappolati».

Due ore nell’inferno di Bakhmut sono anche troppo, ma la via del ritorno si trasforma in una nuova gincana fra le macerie sperando che un colpo non piombi troppo vicino. Il fragore metallico dell’esplosione a una ventina di metri arriva quando stiamo uscendo dalla fortezza fatta a pezzi dai bombardamenti.

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