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“Non furono i mafiosi a sottrarre l’agenda rossa di Paolo Borsellino” | CulturaIdentità

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A questo punto, i misteri e le ombre superano di gran lunga i punti fermi. È questa la sensazione dopo le lettura delle motivazioni della sentenza sui presunti depistaggi nelle indagini sulla Strage di via D’Amelio nella quale persero la vita il giudice Paolo Borsellino e gli agenti della sua scorta. “A meno di non ipotizzare scenari inverosimili di appartenenti a Cosa nostra che si aggirano in mezzo a decine di esponenti delle forze dell’ordine – scrivono i giudici di Caltanissetta – può ritenersi certo che la sparizione dell’agenda rossa non è riconducibile ad una attività materiale di Cosa nostra”.

Non furono i mafiosi a portare un documento tanto importa dal luogo della strage, dunque. Furono semmai altri a voler metter le mani sull’agenda dove Borsellino appuntava i risultati delle sue indagini. Ma c’è di più.”L’istruttoria dibattimentale – si legge nelle mille pagine di motivazioni – ha consentito di apprezzare una serie di elementi utili a dare concretezza alla tesi della partecipazione (morale e materiale) alla strage di Via D’Amelio di altri soggetti (diversi da Cosa nostra) e/o di gruppi di potere interessati all’eliminazione di Paolo Borsellino”. Parole come pietre, che fissano nero su bianco la presenza di un ulteriore livello che ha lavorato in parallelo ai corleonesi per mettere fine alle indagini avviate nel giudice ucciso nel 1992, quando Cosa nostra avviò una campagna terroristica sul territorio nazionale.

Il processo sui presunti depistaggi di via D’Amelio, le cui motivazioni sono state rese note oggi, è stato avviato sulla scorta delle verità processuali emerse nel Borsellino IV, procedimento che ha fatto luce sulle ambiguità del falso collaboratore di giustizia Vincenzo Scarantino.

Si legge ancora nelle motivazioni: “Tra amnesie generalizzate di molti soggetti appartenenti alle istituzioni (soprattutto i componenti del Gruppo investigativo specializzato Falcone-Borsellino della Polizia di Stato), e dichiarazioni testimoniali palesemente smentite da risultanze oggettive e da inspiegabili incongruenze logiche, l’accertamento istruttorio sconta gli inevitabili limiti derivanti dal velo di reticenza cucito da diverse fonti dichiarative, rispetto alle quali si profila problematico ed insoddisfacente il riscontro incrociato”.

Il ruolo dei pentiti. “Senza la successiva collaborazione di Gaspare Spatuzza, della falsità della collaborazione di Vincenzo Scarantino (e della falsa ricostruzione della strage di Via D’Amelio che ne è derivata) non si sarebbe acquisita certezza. Tale circostanza deve fare riflettere sulle possibili disfunzioni, sotto il profilo dell’accertamento della verità, di vicende processuali incentrate prevalentemente su prove di natura dichiarativa provenienti da soggetti che collaborano con la giustizia. In altri termini, si è assistito al fallimento del sistema di controllo della prova al punto da determinare che, in ben due processi, sviluppatisi entrambi in tre gradi di giudizio, non si riuscisse a svelare tale realtà”.

Quanto scritto dai giudici di Caltanissetta dà forza all’impegno di quanti, in questi trent’anni, hanno invocato la verità sui fatti di via D’Amelio. A partire dai familiari del giudice Borsellino, ma anche di quella società civile che ha manifestato in nome della giustizia. Interviene Carolina Varchi, parlamentare di Fratelli d’Italia e attivista del Forum 19 luglio che ogni anni organizza a Palermo la fiaccolata in memoria del magistrato ucciso dalla mafia: “La battaglia per la verità sulla strage di via D’Amelio, per il superamento dei depistaggi e dei tradimenti, non era solo una velleità emozionale della destra palermitana. Nelle oltre mille pagine di motivazioni, i giudici di Caltanissetta hanno messo nero su bianco i tradimenti, i depistaggi, le amnesie, le sgrammaticature istituzionali e tutto ciò che ha contribuito al più grosso depistaggio della storia d’Italia”.

Varchi invoca, intanto, l’avvio di una inchiesta parlamentare per “soccorrere il potere d’accertamento della verità processuale che è proprio della magistratura”. Secondo la deputata meloniana serve dunque colmare un buco nella memoria del Paese. “Abbiamo tutti il dovere – spiega – di concorrere alla scoperta della verità storica: lo dobbiamo all’Italia perché una democrazia è più solida se fondata sulla verità”.

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