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L’uomo dal fiore in bocca di Luigi Pirandello ebbe la sua rappresentazione ufficiale a Firenze, al Politeama Nazionale, il 24 settembre 1926. Il suo primo interprete fu Camillo Pilotto e il pacifico avventore Ezio Banchelli. Scene di Guido Salvini. Da allora le rappresentazioni dell’uomo dal fiore in bocca si accompagnarono da sempre nel programma, a quelle del Berretto a sonagli. La prima messa in scena assoluta di questo “dialogo” di Pirandello avvenne esattamente cento anni fa (il 21 febbraio del 1923), agli Indipendenti, durante la Stagione inaugurale della sede di via degli Avignonesi in Roma. La scenografia in quell’occasione era di Bragaglia. Un cielo paonazzo, assolutamente irreale e così aderente allo spirito pirandelliano. Esempio di dramma borghese, l’uomo dal fiore in bocca è un vero e proprio colloquio fra un uomo condannato a morire per un epitelioma sul labbro e per questo medita sulla vita con un’urgenza appassionata e l’altro, un uomo qualsiasi, che la monotonia banale dell’esistenza ha reso scialbo, imbolsito, tanto da far sembrare questo dialogo un monologo vero e proprio: il tumore viene chiamato “epitelioma”, nome dolcissimo come una caramella: “La morte mi ha ficcato questo fiore in bocca e mi ha detto che ripasserrà, fra otto o dieci mesi. “ Prima di diventare testo teatrale, Pirandello pubblicò questa storia sotto forma di novella, il 15 agosto 1918 su “ La rassegna italiana” con il titolo Caffè notturno di seguito La morte addosso e pubblicata nella raccolta Il Carnevale dei morti nel 1919. Infine come atto unico nella trasposizione teatrale quindi, nella raccolta Maschere Nude.
L’uomo dal fiore in bocca ride, e questo riso amaro è tipico dei suoi personaggi. Poche parole e pochi gesti. Situazioni, simboli, sensazioni e fatti, questa fu la lettura che dell’atto pirandelliano ne diedero i Futuristi; l’avventore è l’aspetto vano della vita: perde il treno per tornare a casa dalle sue donne, confermando nella visione futurista che “l’umanità è mediocre e che le donne non sono né superiori né inferiori all’uomo. Esse sono uguali. Meritano lo stesso disprezzo” (Manifesto della donna futurista di Valentine De Saint-Point). L’uomo pirandelliano ha capito il giuoco e se hai capito il giuoco dai alla vita un sapore e un valore ben diverso. Il fiore in bocca contiene la proiezione del sentimento di morte, il fine-vita, al quale non si può sfuggire. Una vita contiene in sé il ritmo interno, obbediente e inesorabile di quello che ci accade: fatti, irritazioni, rivendicazioni, gelosie, ricordi; il nostro piccolo occhio, il nostro cannocchiale rovesciato che ci fa agire come “un insetto nel bicchiere” che sbatte sulle pareti di vetro illudendosi di trovare una scappatoia. Pirandello si affida ai sogni. In una stazione di provincia, sentiamo il fischio del treno (quante volte nella psicoanalisi il treno è associato alla bara con i suoi viaggiatori/ persone che passano da una destinazione all’altra). Questi allora cercano un rifugio e si presentano al pubblico sempre con un doppio registro: melodrammatici e neri, fantastici e realistici, vestiti di nero, a lutto con panni pesanti ma sanno avere anche il dono della leggerezza. Possono essere anche “fantasmi” che sono capaci di accogliere in sé sia la vita che la morte.
Pirandello nell’uomo dal fiore in bocca, con il racconto delle sue peripezie, la sua capacità di ascolto e osservazione, fa intendere all’avventore che è con lui il fascino dell’ignoto e ci dà un oscuro monito sull’aldilà: “ Uomo, fingi di non sapere chi sei, la tua luce è intrisa di ombre e provoca brividi”. Siamo tutti in prigione, in una eterna carcere, o veniamo tutti da un lungo esilio, un viaggio senza fine. E come si possono difendere gli uomini? Con i ruoli sociali: moglie, marito, amante, cavaliere, servo, padrone, ecc. Pupi siamo, dirà Ciampa nel Berretto a Sonagli. Non è quello di Pirandello un passaggio inverso? Dalla morte alla vita. E quando siamo fissati all’esistenza dal ruolo che ci impone la società, che vale arrabbiarsi, sbattersi, visto che siamo tutti condannati all’atroce tranquillità dei morti? Succede anche in Mattia Pascal. Nessuno ci ricorderà. Passeremo la nostra identità come se non ci fossimo mai stati, come se non fossimo mai esistiti. La Terra è una zattera di naufraghi nella quale la gente capita, si nasconde, sopravvive. Oppure vive, accettando la sua crisi, la sua condizione: epitelioma, parola dolcissima. La sua è una ironica, farsesca ricerca del senso della vita e di una personale re-incarnazione.
La coscienza è un’ombra. Marcel Proust scriveva: “ Dell’universo abbiamo solo visioni informi, frammentate, che completiamo con associazioni di idee arbitrarie, creatrici di suggestioni pericolose.” E Ranier Maria Rilke: “ l’esser morto è faticoso/ ma i vivi fanno tutti l’errore di troppo distinguere”. Il teatrante, il regista, l’attore possono dare corpo ai personaggi fantasticati sulla scena, possono realizzare il Sogno. Uno dei nostri maghi indiscussi del Teatro è Gabriele Lavia che con il drammaturgo siciliano ha da sempre un intenso e proficuo rapporto d’amorosi sensi. Nei Giganti della Montagna, un colossale lavoro realizzato prima del Covid dal teatro Nazionale di Firenze, Gabriele Lavia si interrogava spesso alle prove sulla battuta detta dalla Sgricia ad Ilse: “ Tu forse ti credi ancora viva?” Ilse poi domanderà a Cotrone-Lavia: “ Si crede morta?” E il mago risponde: “ In un altro mondo, Contessa, con tutti noi”. Dov’è l’altro mondo? Sulle tavole del palcoscenico, su questa zattera di legno che ricorda il Pianeta che ci dà l’illusione di una doppia esistenza o è direttamente nell’aldilà? I personaggi sanno di essere morti. Sono ombre che passano. Lavia scenograficamente gioca molto in teatro con le ombre e con le luci non a caso (abbiamo assistito al suo ultimo Berretto a Sonagli che proprio Pirandello associava in programma all’Uomo dal fiore in bocca). C’è ansia del futuro in questo autore, una tensione che porta ad individuare la crisi e nel momento più buio, a superarla, anche in virtù di una superba autoironia, ridicola e tragica insieme, che porterà lo scrittore a scrivere un celebre saggio sull’Umorismo. Gli affanni della vita, la tortura dell’esistenza come scriveva brillantemente Giovanni Macchia, ci sono perché “ noi crediamo di essere”.