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Viviamo tempi che hanno il sapore amarissimo della distruzione e della perdita di qualcosa finora considerato quasi come scontato, perciò talora persino sottovalutato o non pienamente apprezzato: l’età del benessere. Certamente dopo la grande recessione iniziata intorno al 2008 la situazione economica italiana era andata peggiorando e il ricordo del miracolo economico, il cosiddetto boom, così come del rilancio degli anni Ottanta, si facevano sempre più sbiaditi. Il pluridecennale declino dei ceti medi non si era certamente fermato, ma semmai accelerato. Eppure avevamo il futuro. Lo possedevamo come qualcosa di inestirpabile, se solo la volontà personale avesse sostenuto la fatica quotidiana di ciascuno di noi. Da quando è scoppiata la pandemia da Covid-19, soprattutto la seconda ondata che, come la storia insegna, si sta abbattendo più devastante della prima, l’incertezza del domani è così forte e penetrante che davvero i nostri tempi ricordano quelli di una guerra. Il non sapere quando rivedremo la luce rende questo tunnel più lungo di quanto in realtà non sia. Come ogni dopoguerra che si rispetti, anche il post-Covid, che comunque verrà, invoca la sua ricostruzione. Ma non basta evocarne la parola perché tutto si risolva, perché se la guerra guerreggiata è tragedia ben diversa, ancora più traumatica, questi nostri tempi potrebbero avere anche un risvolto simil-bellico, in qualche misura fratricida, sulla falsariga di una guerra civile che scoppia per eccesso di diseguaglianze, indubbiamente crescenti nelle nostre società occidentali. Esponenzialmente crescenti proprio a causa della pandemia che ha colpito al cuore il sistema operativo delle nostre economie capitalistiche fondate sui consumi di massa e la connessa libera circolazione di persone, merci e servizi. I capitali continuano liberamente a circolare, ma andranno prima e più massicciamente là dove vi sono condizioni idonee ad investimenti sicuri e vantaggiosi. Peraltro, questo arrivo di capitali non sarà mai neutrale ed innocuo, perché, a seconda della loro provenienza, si deciderà del futuro politico e culturale, non solo economico, del Paese che sarà beneficiato da quegli stessi investimenti. “Non esiste vento favorevole per il marinaio che non sa a quale porto vuol approdare”, ammoniva Seneca con la sua consueta ed incomparabile saggezza stoica. Ricostruire che cosa e con quali obbiettivi? Se sai cosa vuoi, l’uscita dal tunnel potrebbe essere persino anticipata. In ogni caso questa traversata notturna nel deserto potrebbe trasformarsi in un’occasione per configurare nuovi equilibri di un assetto produttivo probabilmente sbilanciatosi e claudicante da troppo tempo. Dove vogliamo andare: è questa la domanda preliminare. Occorre elaborare il proprio piano, una precisa strategia per fuoriuscire al meglio e il più rapidamente possibile dalle drammatiche difficoltà nelle quali è già sprofondata l’economia italiana, per limitarci ad un orizzonte nazionale. A tal proposito torna quanto mai utile un esercizio di rammemorazione della nostra vicenda nazionale. Potrebbe davvero risultare importante capire cosa favorì la ricostruzione del secondo dopoguerra, quali furono le premesse per il boom che si manifestò a pieno tra 1958 e 1963. Come la scienza storiografica insegna, le premesse sono sempre di medio-lungo periodo. Gli anni Cinquanta affondarono le proprie radici negli anni Trenta. Questo decennio rappresentò un grande laboratorio culturale, paragonabile, secondo alcuni, alla stagione dell’Illuminismo nel Settecento. Così come questo immenso movimento di pensiero europeo, sia francese sia scozzese, sia germanico sia italico, accompagnò, forse anche alimentò, la prima grande rivoluzione industriale, allo stesso modo una nuova elaborazione di idee e progetti sorse in risposta alla grande crisi del 1929. Senza dubbio la seconda guerra mondiale contribuì nel porre le basi di una voglia di vivere che contagiò le persone uscite indenni da quella tragedia e sospinse la ricostruzione.
La demografia, oggi così pericolosamente bistrattata da osservatori ed analisti, oggi così impietosa ed inquietante per le sorti del Paese, registrava i seguenti dati negli anni Cinquanta: nel 1951 la popolazione residente ammontava a 47.516.000 unità, nel 1961 salì a 50.624.000. La crescita demografica fu favorita sia dalla contrazione del tasso di mortalità, sia dagli elevati livelli mantenuti dal tasso di natalità, che tra il 1949 e il 1967 oscillò costantemente tra il 18 e il 20‰ circa. Nel 1964 i nati vivi superarono il milione. Non accadeva dal 1948 e non sarebbe più accaduto. Nello stesso anno le morti furono 490.000 e, di conseguenza, si registrò la più alta eccedenza delle nascite sulle morti mai verificatasi nella storia italiana. Nel biennio 1963-64 il numero dei matrimoni e quello delle nascite raggiunsero valori mai più toccati in seguito, segno di un’aspettativa di benessere e di un’inedita propensione a investire nel futuro. Si veniva da anni di autentica fame e si era determinati, con le unghie e con i denti, a non ritornarvi.
Come ebbe a dire Federico Fellini in un’intervista del 1992, pochi mesi prima della sua scomparsa: “Dopo la guerra dominava il sentimento della rinascita, della speranza: tutto il male era finito, si poteva ricominciare. Adesso, non so se quest’ombra che si allunga sull’Italia preveda una resurrezione. Dopo la guerra, si aveva il sentimento d’aver patito sciagure immeritate ma che facevano parte della Storia, che rendevano partecipi della Storia: non era certo un conforto, ma alle sofferenze dava un senso, un riscatto. Adesso questo manca del tutto: c’è soltanto il sentimento d’un buio in cui stiamo sprofondando”.
Il fatto che anche una trentina d’anni fa tirasse una brutta aria e non si scommettesse granché sul futuro dell’Italia ci lascia spiragli di speranza per il presente. La civiltà contadina, quale indubbiamente era ancora l’Italia alla fine della guerra, fu con ogni probabilità il nostro asso nella manica, poiché lasciò in eredità alla comunità nazionale dei successivi vent’anni un’antropologia quanto mai adeguata a favorire il definitivo industriale della penisola. Già il grande Tolstoj sapeva bene che “solo col lavoro agricolo può aversi una vita razionale, morale. L’agricoltura indica cos’è più e cos’è meno necessario. Essa guida razionalmente la vita. Bisogna toccare la terra”. Il contadino che semina compie il più grande atto di fede. In effetti bisogna davvero credere nel futuro per affidare un seme, in sé fragile e vulnerabile rispetto a vento, freddo e caldo, a quell’incontro fecondo con la terra che solo fa germogliare frutti e consente copiosi raccolti. L’etica contadina del lavoro, quanto mai razionale nel commisurare mezzi a fini, consentì anche agli industriali di mantenere basso il costo del lavoro per molti anni. Fu in linea di principio un elemento di squilibrio, oltreché un atto di ingiustizia, ma in tal modo le aziende riuscirono a mantenere competitivi i prezzi delle merci, sfruttando appunto la manodopera e ostacolando le attività sindacali.
Tra il 1951 e il 1963 tutti gli indicatori economici crebbero (la produzione del 95% e gli utili dell’86% ) e l’orario di lavoro medio giornaliero salì fino a 10 ore; addirittura a 12 in alcune zone o branche produttive. Nel frattempo il potere d’acquisto dei salariati rimase pressoché fermo. Si spiegano così le progressive turbolenze nel mondo operaio degli anni Sessanta. Diciamo questo per evitare mitizzazioni che non servono a capire un decennio davvero cruciale, rendendo inutile quel passato per eventuali suggerimenti al nostro presente. Restano però alcuni dati di fatto. Gli anni Cinquanta furono una stagione densa di iniziative brillanti, di successo, soprattutto all’estero, invidiate ed imitate. Alla base vi fu il centrismo degasperiano. Questa fase politica fu connotata da una forte spinta riformista, dalla istituzione della Cassa per il Mezzogiorno alla legge Tupini per il finanziamento delle opere pubbliche nei Comuni, dalla riorganizzazione e rilancio dell’IRI al Piano INA-Casa, voluto da Amintore Fanfani, allora ministro del Lavoro e della Previdenza sociale. Quest’ultima fu un importante esperienza nel campo dell’edilizia sociale. Tutto questo fu intrapreso all’incirca tra 1949 e 1952. Nel 1953 si ebbe poi l’istituzione dell’ENI, con la presidenza di Enrico Mattei.
Nel 1955 con la Seicento e due anni dopo con la Cinquecento, sempre della Fiat, prese avvio la motorizzazione di massa. Gli anni Cinquanta furono pertanto anni di risveglio con i tentativi di programmazione economica, con l’interventismo dello Stato nell’economia, con la ricostruzione e grande ampliamento delle infrastrutture e reti viarie, con la diffusione di nuovi mezzi di trasporto. La Vespa, assieme alla Seicento e Cinquecento, diventò un mito, assieme ai nuovi beni di consumo che innescarono il trapasso da una società contadina europea semimoderna ad una urbana occidentale ipermoderna, ispirata da quell’american way of life filtrato da cinema, musica e dal nuovo, ammaliante mezzo televisivo. In molte case degli italiani entrarono gli elettrodomestici di ultima generazione: phon, orologio, frigorifero, stufette elettriche, frullatori, lavatrici. Fecero il loro primo ingresso l’idea e poi la consuetudine del weekend, così come la settimana corta, tanto che tra il 1956 e il 1965 triplicarono le presenze turistiche legate alle vacanze. Stavano insomma nascendo nuovi usi e costumi, che avrebbero nel giro di un paio di generazioni cancellato quella uscita dalla guerra. Tutti i settori della nostra industria crebbero notevolmente. Non solo il comparto automobilistico, ma anche la meccanica di precisione, la metallurgia, la produzione di cellulosa, di fibre tessili sia tradizionali sia artificiali, di derivati dal carbone e dal petrolio. Si pensi che l’indice della produzione industriale crebbe dal 1958 al 1962 del 90%. In quello stesso periodo le esportazioni italiane crebbero ogni anno di più del 16%, con l’importante novità che si trattava non solo di semilavorati, come era per lo più avvenuto in passato, ma anche di prodotti industriali finiti.
Cosa resta di quella stagione? Gli anni Cinquanta cosa possono eventualmente insegnarci nel 2020? Difficile compararli con l’oggi, trasferirli tali e quali come esempio riproducibile in modo automatico. Non è questo il mio intento. La storia non si ripete, tanto meno in modo pedissequo. Serve però a trovare ispirazione per inventarsi risposte capaci di fronteggiare le sfide del proprio presente. Il passato riletto sine ira et studio fornisce suggerimenti, alimenta la fantasia per progettare il futuro. L’esempio dei nostri anni Cinquanta ci dice quanto peso abbia l’antropologia per una ricostruzione economica e sociale. Fondamentali sono il modo di pensare e di giudicare, il sistema di valori con il quale soppesare diritti e doveri, la tempra morale con cui affrontare sacrifici e programmare iniziative. All’epoca la famiglia fu il perno attorno a cui ruotò il motore della ricostruzione e del boom economico. Un tipo di famiglia in prevalenza contadina, intrisa di alcune virtù, anzitutto lo spirito di sacrificio, il senso del risparmio, l’investimento sulla formazione della prole, la sete di promozione sociale, di sé e della propria discendenza. La borghesia, dal canto suo, sentiva la responsabilità dei compiti corrispondenti al proprio status di classe chiamata a farsi dirigente, a svolgere una leadership. Gli anni Cinquanta furono una congiuntura figlia di molti fattori che si trovarono a convergere per una generazione: anzitutto l’eredità ottocentesca di una borghesia dotata di spirito nazionale, non interamente annullato dalle due guerre mondiali; quindi la reazione ai lutti e tragedie che entrambe avevano prodotto; infine un’etica del lavoro, del sacrificio e una voglia di riscatto sociale che accomunarono borghesi, proletari e contadini, ossia il corpus vivente di una comunità nazionale che pensò tanto a sé quanto ai propri figli. Una patria filiale.