Concentrati su quanto sta accadendo in Ucraina, spesso ci si dimentica che quello in Europa orientale non è l’unico conflitto vicino ai nostri confini. Nel Mediterraneo, in Siria, si sta conducendo una “guerra ombra” non dichiarata che vede protagonisti attori internazionali che si affrontano per contrastare vicendevolmente la reciproca influenza in un’area cruciale.
Israele, Iran e Stati Uniti si affrontano anche apertamente, ma con differenze sostanziali come vedremo, nel Paese del Levante per cercare di consolidare i propri diversi interessi strategici. Negli ultimi tre giorni abbiamo assistito a due incursioni in Siria portate, rispettivamente, da Israele, che mercoledì ha bombardato l’aeroporto di Aleppo, e dagli Stati Uniti, che venerdì hanno colpito obiettivi iraniani nei pressi di Deir el-Zor.
L’attacco israeliano
Nella notte di mercoledì la Iaf (Israeli Air Force) ha condotto un attacco missilistico distruggendo un presunto deposito di armi utilizzato dalle milizie sostenute dall’Iran situato presso l’aeroporto di Aleppo. Scalo che, secondo le autorità siriane, è stato messo fuori servizio dall’incursione.
Si è trattato del secondo attacco di questo tipo in un mese all’aeroporto della seconda città della Siria, che è un importante canale per i voli recanti aiuti per il disastroso terremoto che ha colpito la Siria nordoccidentale e la Turchia il 6 febbraio scorso. Il raid è stato condotto prima dell’alba e a quanto pare non ha causato vittime.
Da quando è scoppiata la guerra civile in Siria nel 2011, Israele ha effettuato centinaia di attacchi aerei, prendendo di mira principalmente le posizioni dell’esercito siriano, delle milizie sciite sostenute dall’Iran (Hezbollah) e delle stesse Guardie della Rivoluzione Islamica iraniane (le Irgc meglio note come pasdaran) che sono presenti attivamente nel Paese.
In particolare le milizie appoggiate da Teheran hanno una forte presenza nella regione di Aleppo in quanto hanno fornito un fondamentale supporto all’esercito siriano nella sua riconquista dei distretti della città controllati dai ribelli e dai terroristi nel 2016.
Secondo i primi rapporti di Damasco, l’attacco israeliano ha seguito uno schema ben consolidato: i caccia della Iaf sono giunti dal mare, in questo caso a ovest della città di Latakia ove è presente un insediamento militare russo (la base aerea di Hmeimim è poco più a sud) lanciando i missili prima di entrare sul territorio siriano, quindi usando munizionamento stand-off. Secondo il ministero dei Trasporti siriano, i raid hanno causato danni alla pista dell’aeroporto di Aleppo e ad altre strutture dello scalo, costringendo tutti i voli in arrivo a essere reindirizzati a Damasco o a Latakia.
Non si tratta della prima incursione su Aleppo: il 7 marzo un altro attacco all’aeroporto aveva causato tre vittime e la chiusura dello stesso per tre giorni. Ancora prima, a settembre, ne era stato effettuato un altro.
Tel Aviv, infatti, ha aggiornato la sua tattica di contrasto alla penetrazione iraniana in Siria da qualche tempo, e gli attacchi più frequenti agli aeroporti siriani lo dimostrano. A fine dicembre, infatti, la Difesa israeliana aveva fatto trapelare l’intenzione di interrompere i collegamenti aerei tra Iran e Siria che vengono utilizzati da Teheran per rifornire di sistemi d’arma Hezbollah e gli stessi pasdaran presenti in Siria. Poco dopo, il 2 gennaio, un’incursione aerea della Iaf aveva colpito l’aeroporto internazionale di Damasco causando gravi danni. Le incursioni sono poi proseguite seguendo lo stesso schema di attacco dal mare: il mese scorso, un raid ha ucciso 15 persone in un distretto di Damasco.
Il raid statunitense
Nella notte tra giovedì e venerdì, anche gli Stati Uniti sono tornati a colpire la Siria con attacchi aerei, come anticipato. Il raid ha colpito un deposito di armi nel quartiere Harabesh di Deir el-Zor, uccidendo sei miliziani (altre fonti riportano otto).
Quella regione siriana, che confina con l’Iraq, è sede di giacimenti petroliferi ed è controllata da gruppi di milizie sostenute dall’Iran e dalle forze siriane. L’attacco statunitense di stanotte, però, è stato effettuato come rappresaglia per un’incursione portata da un drone di fabbricazione iraniana che giovedì ha ucciso un contractor statunitense e ferito cinque soldati americani (insieme a un altro contractor) nel nord-est della Siria.
“Gli attacchi aerei sono stati condotti in risposta all’attacco di oggi e a una serie di recenti incursioni contro le forze della coalizione in Siria” da parte di gruppi affiliati al Corpo delle guardie della rivoluzione islamica, ha affermato il segretario alla Difesa Usa Lloyd Austin in una conferenza stampa. A quanto sembra, un secondo raid americano avrebbe colpito una postazione militare vicino alla città di Boukamal lungo il confine con l’Iraq, come riferisce l’Osservatorio Siriano sui Diritti Umani, ma non è ancora possibile confermarlo in modo indipendente.
Un quadro strategico diverso e delicato
Quanto accaduto negli ultimi tre giorni arriva in un momento particolarmente delicato e di svolta per la stabilità del Medio Oriente: Iran e Arabia Saudita, tramite mediazione cinese, hanno infatti riallacciato i rapporti diplomatici con in agenda un percorso di normalizzazione del conflitto in Yemen e non solo. Casa Saud infatti, a margine dell’accordo con Teheran, ha avviato il processo per riaprire anche la propria legazione a Damasco.
Il generale dell’Us Army Michael Kurilla, capo del Central Command (che dirige le operazioni in Medio Oriente e Asia Centrale), ha avvertito che le forze statunitensi potrebbero effettuare ulteriori attacchi se necessario. “Siamo attrezzati per opzioni scalabili di fronte a qualsiasi ulteriore attacco iraniano”, ha affermato Kurilla in una nota. Rivolgendosi giovedì al comitato per i servizi armati della Camera degli Stati Uniti, Kurilla ha avvertito che “l’Iran di oggi è esponenzialmente più capace militarmente di quanto non fosse cinque anni fa” indicando l’arsenale iraniano di missili balistici e droni come principale minaccia.
Continua quindi la “guerra ombra” di Israele all’Iran, che vede come campo di battaglia la Siria, e lo scontro tra Washington e Teheran. I due conflitti non dichiarati, però, assumono connotazioni profondamente diverse: Israele non fa mistero della sua campagna di incursioni, che è sistematica, attiva, e coinvolge obiettivi principalmente iraniani o delle milizie sciite, effettuata col placet silenzioso di Mosca, mentre gli Stati Uniti hanno una politica esclusivamente reattiva, come evidenziato da quest’ultimo raid e dai precedenti effettuati anche dall’amministrazione di Donald Trump.
Occorre sottolineare, ancora una volta, che proprio per lo schema delle incursioni israeliane, sempre effettuate provenendo dal mare e sfiorando le basi russe di Hmeimim e Tartus, è certo che il Cremlino viene informato preventivamente delle stesse, anche per evitare “spiacevoli” eventi come quello occorso a settembre 2018, quando l’ennesimo raid israeliano aveva attivato la difesa area siriana che per errore ha abbattuto un aereo spia russo tipo Il-20M.
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