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Vogliono arrestare Lucha y Siesta, l'assurdo processo alla presidente dell'associazione – Il Riformista

In tribunale per l’occupazione dell’immobile

Federica Graziani — 11 Gennaio 2023

Vogliono arrestare Lucha y Siesta, l’assurdo processo alla presidente dell’associazione

In queste settimane, nella città di Roma, si sta svolgendo un processo monco e orbo. L’Associazione Casa delle donne Lucha y Siesta è chiamata in tribunale per l’occupazione dell’immobile di Via Lucio Sestio, luogo dove centinaia di donne uscite da vicende di violenza domestica hanno trovato una casa, un lavoro, i sostegni necessari a una ripresa sicura e piena. Nonostante una precedente assoluzione per la medesima ipotesi di reato, ieri, 10 gennaio, è stata indetta la prima udienza (poi rimandata al 26 aprile per la sostituzione del giudice competente) del processo penale a carico della Presidente dell’Associazione che da 10 anni supporta le attività antiviolenza della comunità della Casa. La Casa Lucha y Siesta è invece attiva fin dall’8 marzo del 2008 come centro antiviolenza, luogo di accoglienza per donne in percorsi di fuoriuscita dalla violenza e polo culturale.

La vicenda è così ingarbugliata da rendere necessario ripercorrere alcuni eventi per capirci qualcosa. La denuncia alla Presidente arriva fra la fine del 2017 e il 2018, quando la giunta Raggi decide che Atac, l’azienda municipalizzata del trasporto romano, all’epoca proprietaria dell’immobile di Via Lucio Sestio, debba entrare in concordato preventivo. Per ripianare i debiti accumulati, Atac è costretta a vendere il proprio patrimonio immobiliare, fra cui anche lo stabile di via Lucio Sestio, che va quindi sgomberato. Lo stabile era rimasto in stato di abbandono per decenni, fino alla sua occupazione nel 2008 da parte di quelle donne che vi hanno creato Lucha y Siesta rendendolo, fra le altre cose, lo spazio romano con più posti letto per chi fuoriesce da situazioni di violenza. Quattordici sui trentanove totali, a fronte dei tre-quattrocento previsti per il territorio della capitale dall’Expert Meeting sulla violenza contro le donne dell’Unione Europea del 1999, ratificato dall’Italia nel 2013, e necessari per attuare la Convenzione di Istanbul.

Torniamo allo sgombero. Mentre le sorti processuali della Presidente dell’Associazione andavano avanti, a gennaio del 2020 alcuni agenti di polizia entrano nello stabile e identificano le persone presenti. La comunità femminista, fra cui avvocate, psicologhe, operatrici delle reti antiviolenza e attiviste, si mobilita e dopo mesi di incontri e manifestazioni la Regione Lazio, in un’asta dei primi di agosto del 2021, acquista l’immobile messo all’asta dal tribunale fallimentare. La Giunta regionale vota una delibera che avrebbe previsto il proseguimento, a Lucha y Siesta, di un progetto contro la violenza di genere attraverso un comodato d’uso gratuito. Ma la politica non dà seguito a quel progetto e Lucha y Siesta, come tante altre realtà associative che rispondono efficacemente a urgenze sociali, rimane nel limbo di chi continua a fornire un servizio pubblico senza riconoscimento da parte di quelle stesse istituzioni che si servono di loro. E questa è la ragione della cecità di questo processo: come può un’articolazione dello Stato procedere contro una realtà che altre articolazioni dello Stato giudicano tanto utile da non soltanto collaborarvi ma anche appaltargli in larga parte la risoluzione di una questione sociale di loro competenza?

Ma non solo. Arriviamo alla parte monca. Come è possibile che si inquisisca una singola persona, la Presidente di quell’Associazione, quando Lucha y Siesta è una comunità di decine di operatrici e centinaia di persone che da anni operano gratuitamente a favore delle donne? Certo, che la responsabilità penale sia individuale è il cuore dello Stato di diritto, ma la responsabilità per le attività che a Lucha y Siesta si svolgono è rivendicata in modo cristallino da ogni membro di quella comunità. Comunità che dal 2008 ha ospitato più di cento donne fuoriuscite dalla violenza e con lo sportello di ascolto ne ha aiutate un migliaio, e che si è costruita a partire da uno slogan programmatico – “Non sei sola”. Una sentenza giusta per un processo così sbagliato non potrà darsi, ma in quello slogan c’è l’unica risposta possibile all’intera vicenda.

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