Roma, 20 mar – Sorpresa: il piano di pace della Cina non esiste. Così definito da buona parte dei media italiani, quello che Xi Jinping sta presentando oggi a Vladimir Putin non è un piano di pace semplicemente perché la stessa Repubblica popolare non vuole che venga definito in questi termini. Non a caso il presidente cinese, fresco di (scontata) rielezione, ha precisato che la proposta di Pechino su come risolvere la crisi ucraina “riflette le visioni globali e cerca di neutralizzare le conseguenze”, riconoscendo al contempo che le soluzioni “non sono facili”. Certo è che la fine della guerra garantirebbe “la stabilità della produzione globale e delle catene di approvvigionamento”.
La Cina non ama d’altronde i sommovimenti e l’imprevedibilità altrui, perché è abituata a pianificare tutto, calcolando semmai gli effetti delle possibili mosse dell’avversario. E’ altresì vero che sa capitalizzare, allorché le mosse avventate fanno scoprire agli altri il fianco, fiaccandoli. Pechino si pensa Impero, dunque da posizione dominante, non subalterna. Tuttavia, non potendo agire da posizione di forza con tutti, e in ogni contesto, preme su chi considera (a ragione) alleato ufficiale e dipendente de facto.
Perché la Cina non ha un piano di pace per l’Ucraina
Anche per questo, al netto degli equivoci terminologici e per quanto il “termine” sia sempre sostanziale – qualunque accezione intendiamo dargli – è difficile pensare che oggi la Cina voglia davvero la pace in Ucraina. Dopotutto Xi Jinping è ben consapevole che con la Russia momentaneamente isolata dall’Occidente può continuare a siglare favorevoli accordi economici, in particolar modo dettando ai russi il prezzo del gas e acquistandolo a basso costo. E pur importando dispositivi bellici dalla santabarbara post sovietica, con il conflitto in atto vende anche pezzi di droni prodotti a Shenzhen e poi assemblati in Russia. Allo stesso tempo la Cina non strapperà mai con l’Occidente, perché ha due necessità: perseverare con il proprio penetrante soft power e mantenere il proficuo interscambio commerciale, insostituibile con quella parte di mondo perennemente in via di sviluppo.
La tigre e il sonaglio
Nessuna pace all’orizzonte è dunque nelle corde e nelle intenzioni di Pechino. Ricorderete quando Xi Jinping passò la palla infuocata agli Stati Uniti: “Spetta a chi ha messo il sonaglio al collo della tigre il compito di toglierlo”, disse il leader cinese a Joe Biden. Una frase sottile, metafora sin troppo chiara: la tigre è la Russia e il sonaglio è un ovvio riferimento all’allargamento della Nato ad Est, che avrebbe incautamente mandato su tutte le furie la “belva”. Dunque secondo Pechino spetta a Washington e in generale ai membri della Nato avvicinarsi al felino furioso e provare a toglierli con opportuna cautela il sonaglio tintinnante. Astuzie confuciane.
Altra cosa è tentare di intestarsi adesso il raggiungimento di una tregua, cogliendo le falle di Washington e i passi falsi di Mosca. Perché se in questa partita la Cina non è capace di imporre il triplice fischio, può quantomeno provare a decretare un intervallo ristoratore. Si gioca una sempre provvidenziale pausa del tè, utile da rivendere in sede diplomatica internazionale. Esattamente come fatto, negli scorsi giorni, con Iran e Arabia Saudita. L’immagine non è solo alla base del marketing.
Eugenio Palazzini
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