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Procedibilità e querela: il passo indietro della riforma Cartabia – Il Riformista

Vi è un aspetto della Riforma Cartabia della giustizia penale che avrebbe, probabilmente, meritato un maggiore approfondimento. Soverchiato dall’acceso dibattito sulla nuova disciplina della prescrizione, sulla ricerca di nuovi equilibri strutturali del processo, sulla riforma del sistema sanzionatorio e sull’introduzione di un istituto nuovo e promettente quale quello della giustizia riparativa, il tema della estensione delle ipotesi di procedibilità a querela di parte è restato lontano dai riflettori e, conseguentemente, dall’attenzione dell’opinione pubblica, anche quella più avvertita. Di cosa si tratti è presto detto.

A seguito della entrata in vigore della Riforma, sono divenuti punibili a querela di parte, salvo alcune eccezioni, numerosi reati: le lesioni volontarie con esiti di durata sino a quaranta giorni, le lesioni personali stradali anche gravissime, il sequestro di persona non aggravato, la violenza privata, la violazione di domicilio anche se commessa con violenza sulle cose, il furto, la turbativa violenta del possesso di cose immobili, il danneggiamento, la truffa e la frode informatica anche quando il danno patrimoniale sia di rilevante entità. Si legge, nei lavori parlamentari, che obiettivo di tale amplissima estensione delle ipotesi di procedibilità a querela è stata quella di conseguire “effetti deflattivi sul contenzioso giudiziario ed effetti positivi sulla durata complessiva dei procedimenti, nell’ottica di una maggiore efficienza del processo penale”. Di fatto, mediante la previsione della necessità della proposizione di una querela per la punizione di tali reati, è stato introdotto un filtro assai significativo, che ridurrà fortemente l’intervento del giudice penale rispetto ad essi.

Il legislatore ordinario, vincolato dal principio costituzionale della obbligatorietà dell’azione penale e nella necessità di trovare comunque un modo per abbattere il numero dei processi penali, ha soddisfatto tale esigenza estendendo le ipotesi di procedibilità a querela, nella consapevolezza che si tratta di uno strumento idoneo allo scopo. In buona sostanza, il legislatore, non potendo attribuire discrezionalità al pubblico ministero nella scelta dei reati da perseguire, ha trasferito tale discrezionalità alle parti offese, rendendo la loro scelta vincolante per il pubblico ministero. Si tratta di una soluzione molto poco soddisfacente per più di un aspetto. Il primo concerne la funzione stessa del diritto penale. È certamente vero che la querela non tocca, sul piano astratto, la rilevanza penale dell’accaduto. Il fatto continua ad essere un reato anche se, di fatto, non viene perseguito per l’assenza della querela. Nel momento, tuttavia, in cui essa è proposta, la titolarità dell’azione penale resta in capo al pubblico ministero, senza che possa parlarsi, sempre su di un piano astratto, di una privatizzazione del controllo penale. Peraltro, è comunque egualmente innegabile che evidentemente diverse sono le conclusioni sul piano concreto.

La procedibilità di un reato a querela di parte significa che la reale punibilità di quel fatto dipende dalla volontà, per giunta insindacabile, della vittima del reato. Quest’ultima, nel decidere se proporre o no querela sarà condizionata non solo dal desiderio di punizione del colpevole, ma anche dalla considerazione dei costi, morali e materiali, che dovrà sopportare, dalla sua vulnerabilità a ritorsioni, dalle sue condizioni sociali, economiche, anagrafiche, di salute, etc. E si tratta, appunto, degli aspetti su cui il legislatore fa affidamento per ottenere un effetto deflattivo. Ma, allora, ci si potrebbe chiedere, perché la procedibilità a querela non è prevista per tutti i reati che colpiscano beni di privati? L’effetto deflattivo sarebbe evidentemente enorme. La risposta è semplice: molti degli interessi protetti dalle norme penali, pur riguardando gli individui, hanno un rilievo pubblico, in quanto attengono proprio alle condizioni elementari per la esistenza di una ordinata convivenza civile. Questo implica che la punibilità delle condotte che violino quegli interessi corrisponde all’esigenza della intera collettività che quegli interessi siano garantiti al di là del volere dei titolari degli interessi concretamente lesi.

Diventa, allora, decisivo considerare quali interessi siano protetti dai reati, la cui procedibilità è stata condizionata, dalla Riforma Cartabia, alla proposizione della querela. È del tutto agevole constatare che si tratta dei beni, la cui tutela è posta a fondamento di qualsiasi, anche la più elementare, convivenza civile. Sono tutti beni che, assai significativamente, hanno un diretto e preciso riscontro non solo nella Costituzione italiana, ma anche nelle più rilevanti Convenzioni internazionali per la tutela dei diritti fondamentali. Si tratta, in particolare, dei diritti alla libertà personale, alla libertà di autodeterminazione, alla inviolabilità del domicilio, alla integrità fisica, alla proprietà. Degradare, in concreto, la tutela di questi beni non significa, di fatto, cambiare volto alla società? Non sarebbe stato, allora, necessario aprire un dibattito su questo specifico aspetto, invece che derubricarlo a mero strumento di efficientamento della macchina della giustizia? Se si pensa alle inutili e clamorose polemiche di questi mesi su temi inesistenti (si pensi al paventato pericolo di ritorno del fascismo incarnato da Giorgia Meloni), diventa davvero incomprensibile il fatto che un argomento di questa rilevanza è stato mantenuto sottotraccia.

Per chi volesse ricercare connessioni di tipo sistematico, potrebbe essere addirittura individuata una comune ratio con quella parte della disciplina della legittima difesa, che presume sempre proporzionata la reazione quando avviene nel proprio domicilio. Una sorta, perciò, di espansione, non dichiarata ma terribilmente concreta(!), di privatizzazione della tutela dei propri diritti anche di rilevanza penale! Vi è, peraltro, anche un ulteriore elemento che fa guardare con perplessità e diffidenza alla nuova disciplina. Affidare alla decisione delle vittime il potere di dare corso o no al procedimento penale, significa accentuare le disparità e rendere meno protetti proprio i più fragili. Questi ultimi, difatti, sono innegabilmente quelli che appaiono culturalmente meno attrezzati per reagire, maggiormente esposti alla paura di ritorsioni, più pronti a una definizione domestica della vicenda, più preoccupati dei costi morali e materiali di un processo penale.

È pur vero che, nella riforma, è stabilito un limite generale di operatività costituito dalla previsione che si proceda di ufficio quando si sia in presenza di persone offese, che, in quanto incapaci per infermità o per età, non siano in grado di presidiare autonomamente i propri interessi. Da un lato, la norma è insufficiente in quanto lascia senza tutela coloro che sono socialmente più deboli; dall’altro, tale incapacità come va misurata e chi è legittimato a misurarla? L’ufficiale di polizia giudiziaria che ha notizia del fatto? Come si è già detto, il legislatore ordinario, non potendo violare il principio costituzionale della obbligatorietà dell’azione penale per ottenere un effetto di deflazione, ha aggirato il problema, attribuendo alle vittime quella discrezionalità nel procedere, che non avrebbe potuto attribuire al pubblico ministero. Ma, così facendo, da un lato ha in concreto sminuito la rilevanza di alcuni beni, che viceversa appaiono fondamentali per la esistenza di un qualsiasi consorzio civile, e, dall’altro, ha accentuato le diseguaglianze, già profonde, esistenti nella società. È un evidente passo indietro, e non è di poco conto.

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